Mi alzo dopo la bellezza di dieci ore di sonno, va detto non continuative per via delle chiacchiere di mio figlio Zeno intorno alle sette e trentacinque circa, insomma prima di partire col suo Zip per andare a scuola. A Bergamo sono le nove, ci sono il sole, la speranza e le nuvole bianche come elefanti. Mi lavo i denti e mi guardo allo specchio soddisfatto perché col passare del tempo somiglio sempre di più a un vecchio pirata inglese del giornalismo orobico. Felice, mi vesto il meglio possibile, scendo e bevo il mio solito caffè doppio in tazza grande. Sicuro che il mio vascello, la famosa Pandona Aranciona a Metano, si trovi nei pressi di viale Giulio Cesare, inizio a cercarla con rinnovato entusiasmo. Faccio lo stradone avanti e indietro, indietro e avanti. Non c’è. Torno a casa, do una sbirciatina in garage e ci sono un sacco di maghine, alcune davvero belline, ma non la mia Panda. Rifletto sulla giornata di ieri, “bene, ero in redazione, poi in serata al Blu con Marco, quindi a magnare al Vesuvio”, che sta in fondo al Borgo. Mi metto a battere il quartiere, niente. Nel frattempo mi sono giocato un’oretta e passa della mia vita. Mi sale una discreta ansia, per bloccarla decido di fare la cosa migliore, rimandare la forsennata ricerca a tempi migliori, partendo a piedi verso il nostro ufficio. Ma il pensiero mi resta in testa, “possibile me l’abbiamo rubata?”, escludo l’ipotesi, manco un folle si metterebbe in un’impresa del genere, considerando le ammaccature in serie che ha la Pandona, che, tra l’altro, ciuccia metano e/o benzina come se piovesse, neppure fosse una fuoriserie degli anni Ottanta, tipo una Lamborghini Miura. Camminando incontro un collega, Wainer Preda, parliamo di politica. Mi rinnova la sua stima. Evito accuratamente di dirgli che ho perso l’auto nelle pieghe della nostra città. Intorno alle undici sono in redazione. E la mia Pandona Aranciona a Metano è lì, tranquilla fuori dalla chiesa di San Paolo, che mi strizza l’occhio con un sorriso da parte a parte. Per non darmi da solo dello stordito, mi autoconvinco che si sia spostata nella notte di sua spontanea volontà, magari dopo essersi fatta un giretto a vedere l’Adda a Brivio. L’abbraccio forte per alcuni minuti suscitando l’attenzione di un passante, mi ferisco leggermente a una mano con uno dei tergicristalli, le dico ti amo più di una volta fottendomene delle sedute col mio psicologo Ze Ze, che mi consiglia di non dire quelle due paroline insieme ogni tre per due. Concludo la fortunata vicenda facendomi il selfie che vedete, serissimo, fingendo di essere sano, pronto per la mia lunga giornata lavorativa.
Matteo Bonfanti