Così alla fine anche la mia prima volta all’Opera si è risolta come sempre, fare il cretino con i miei figli e la solita baby gang al seguito, e poi trovare un attimo, stanco, perso e perduto, con le lacrime agli occhi, finalmente solo mentre tutti intorno fanno rumore, intento a ricordare questi miei anni difficili e meravigliosi, vissuti soprattutto nelle profonde acque dell’amore, calde e gelate, nel sole e nel vento, a volte addirittura nella tempesta, nel sorriso e nel pianto, davanti al mondo o disperato, a piagnere come un popino nel parcheggio della Conad di via Carducci sulla mia Pandona Aranciona a metano.
Torno a ieri. Arrivo a casa che sono le sei e mezza, trenta minuti di ritardo perché nel pomeriggio sono stato a raccogliere la pubblicità tra mille e passa amici per il nuovo libro che farà il nostro giornale, la storia del calcio bergamasco dalla A di Atalanta alla Z di Zingonia Verdellino. Una telefonata via l’altra, con presidenti e sponsor, senza guardare l’orologio, che tra l’altro non ho e non ho avuto mai, manco da ragazzino, lo Swatch che avevano tutti gli altri all’oratorio dei Frati di Viale Turati.
Va beh, riecco il mio lavoro, ci sta raccontarlo perché è bellissimo ed è pure il mio sogno preferito. Sono un calciatore e amo la mia gente, per fare un contratto anche misero o miserrimo, cento eurini per un loghetto a pagina 263, posso tranquillamente chiacchierare per un pomeriggio intero. Adoro le storie del pallone, sono uniche: l’esponente principale della nostra Confindustria che mezzo secolo fa si divideva tra la fabbrica dura e pura e il campo di Promozione, il mister super figo che un giorno ha scelto di coccolare la sua bambina malata dando addio ai suoi sogni di rock and roll (che nel nostro ambiente sono la tattica del fuorigioco, il 3-4-3, Gasp e Toloi, l’azione che parte dal portiere), il centravanti fortissimissimo che di notte lavora all’Autogrill di Dalmine e la domenica alle tre è stanco muerto.
Così ieri arrivo a casina in ritardo, coi miei adolescentini ad aspettarmi sulla porta, stupendi e colorati, che paiono una vecchia pubblicità della Benetton. Andiamo all’Opera, in Città Alta a piedi, un dono, porte e cassetti, minuscole vicende di sassi millenari, stupendi e intimi, accoglienti, qualcosa che non può capire chi non vive qui da noi. Tralascio il Negroni con un barista che più allegro non si può e le cazzate sul tragitto, le parole che tra noi sei girano intorno, sta di fatto che alle sette ci siamo, obiettivo raggiunto, tutti alla biglietteria, io, Vini, Ze, Cate, Diego e Miri trionfanti al Teatro Sociale.
In scena Medea in Corinto, quattro ore di gente che canta, va detto in un modo che apre il cuore, ma con le frasi di due secoli e passa fa. Figuratevi la baby gang… Finisce il primo atto e il gruppo inizia a taglieggiarmi. La trattativa camorrista la fa Zeno, il mio secondo, tredici anni: “Babbo, noi tagliamo la corda che sta cosa ci ha rotto li maroni e non ci capiamo una mazza, dacci cinquanta euri che ci magnamo cinque pizze e stiamo a zonzo, aspettandoti in Piazza Vecchia…”. Faccio due calcoli sull’investimento, che non è che navighi nell’oro e già li ho portati a Teatro per la stessa somma. Mi convinco, mando affanculo il gran finale della rappresentazione e gli dico: “Col cazzo, Ze… Scendo con voi e famo una bella spaghettata aglio, olio e peperoncino nel borgo”.
E andiamo, lasciando la cosa a metà. Mi metto a cantare come i lirici, la baby gang mi segue nel progetto, iniziamo a dirci le cose così. E scopro il dito al culo della notte: Vinicio, il mio primo, un gigante di quindici anni, deve tirare insieme la scheda del Maestro e Margherita, il libro che più amo al mondo, che lui non ha letto. E me lo grida in stile Opera: “Papààààààààààààà, hooooooooooooooo daaaaaaaa faaaaaaaaare un luuuuuuuuuuuuuuuuuuungo scriiiiiiiiiiiiiitto su Bulgaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaakov. Miiiiiiiiiiiiii aiuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuti?”.
Ed è lì che penso all’Opera e agli ultimi cinque anni della mia esistenza. Sono stato Medea, una donna pazza di gelosia, come lei in grado di fare una carneficina pur di restare col suo amore. Poi sono andato da Ze Ze, il mio psicologo, ed è diventato tutto più tranquillo. Ma sono stato anche Giasone, innamorato perso di un amore fresco e brillante, di una vita nuova, con la mia Creusa, giovane e intelligente, la bellissima e dolcissima figlia di un re. E sono stato anche il loro figlio, il ragazzino che vedeva litigare mamma e papà mentre in cucina si stavano dicendo addio.
Sono stato tutti i personaggi dell’Opera. E non sono speciale, ma uno qualunque. Sono mille anime perché la vita è questa, essere Medea, poi Giasone, quindi Creusa e tutti gli altri sul palco. Pure i miei presidenti e i miei sponsor, donne e uomini speciali, l’hanno passata così, anche i miei genitori, le stesse menate, gli identici dubbi di due secoli fa, qui e ora, cantando e piangendo lungo le commoventi mura di Città Alta.
Matteo Bonfanti
Nella foto: io tra il primo e il secondo atto di Medea in Corinto