C’è chi sono tra le righe di un libro di Sepulveda: suo padre lo guarda mentre sta salendo su un aereo che lo porterà lontano, il piccolo alza il pugno chiuso, suo papà fa lo stesso e scoppiano a ridere perché per loro è sempre stato soprattutto un gioco. Così per me, che sono stato quel bambino grazie a Marco e Valeria, semplicemente i miei, e adesso sono quel padre con Vinicio e Zeno, ancora, semplicemente i miei.
Intanto Valeria, mia madre, io piccolo piccolo con lei e mia sorella Chiara sul lettone. L’album di Ricky Gianco sul giradischi, “Siamo tutti nella merda”, “Compagno sì, compagno no, compagno un caz”, il solletico, gli abbracci stretti stretti, a me che viene da correre e da saltare come un matto. Quelle due donne bellissime che mi stringono fino a farmi mancare l’aria e che mi riempiono di baci e io che mi sento in paradiso perché sono ore che aspetto quelle coccole, carezze rosse come la musica che c’è nella stanza. C’è che l’album finisce e andiamo in bagno, mi lavo i denti, metto il pigliama. E siamo ancora noi tre, appiccicati prima di addormentarci, la dolcissima voce di Valeria, la sua leggera cadenza bolognese, a cullarmi un secondo per farmi chiudere gli occhi: “L’ha detto il benzinaio di via Stelvio, questa volta ci sarà il sorpasso, arriverà la rivoluzione e il Vial Turati si riempirà di fiori”. E ci sono io che inizio a sognare, felice, col pugno chiuso.
Tanto ha fatto anche Marco, mio padre, in lungo e in largo durante i miei tredici anni, la sua macchina, l’unica Austin Allegro in giro per le strade dell’Italia, lo scassato regalo di una sua collega, un’auto senza marmitta, col rombo della Ferrari e la potenza di un Ciao, il motorino brutto della Piaggio. Lui che viene a prendermi il sabato alle medie per portarmi via. E nel sedile ha pizze, focacce e Coca per il viaggio che ci aspetta. E sento il rumore del suo mezzaccio e sono felice, che il nostro pomeriggio saranno mille sorrisi dai compagni di Este cantando “Bella Ciao” con Valentina, che sta lì, stupenda, lo sguardo da gatta, la mia stessa età, le tette già grosse, la tessera di Sinistra Giovanile, due bicchieri di vino rosso dei colli di Padova. Poi la tavola, un sacco di persone che giocano a carte, che inventano un mondo migliore, ma fanno anche parecchie battute sceme. Ed è quasi l’una, dieci minuti alla campanella, e vado alla finestra, la prof mi sgrida ma non m’importa, vedo Marco, mio padre, bellissimo con la barba lunga, e lo saluto col pugno chiuso, lui fa lo stesso e iniziamo a ridere.
Quindi io e lei, neanche maggiorenni, con quei brividini sulla schiena di quando da ragazzini si va due giorni lontani da casa. L’alba, il Primo Maggio, noi due che prendiamo il pullman dei sindacati, la sua mano nella mia, il viaggio tenendosi la pipì, l’arrivo, Roma, il panino con la salamella, le birre, la nostra coperta su quel prato, Lorenzo che canta “Sono un ragazzo fortunato”, “Sei bella come il sole”. Lei mi guarda negli occhi e mi dice “Ti amo” ed è la prima volta in vita mia. E sono innamorato e rido e ballo sulle note di “Comandante Che Guevara”. E ho il cuore pieno di gioia e il pugno chiuso alzato.
Ora come ora sono tempi difficili, di noi di sinistra chiamati spesso zecche. Scrive Alberto sotto la foto di me e Zeno col pugno chiuso, scattata l’altro ieri dopo il corteo del 25 aprile, una giornata passata dai Bonfanti quasi interamente a fare i cretinetti in vacanza: “Ma i bambini non possono essere bambini e basta?”. Dice Federico, anche lui, credo, infastidito da quell’immagine: “Il contrario di fascismo non è comunismo, ma è libertà”. E non sono arrabbiato per le loro frasi, faccio il giornalista, amo chi dissente da me, mi aiuta a voltarmi dall’altra parte regalandomi pensieri e ricordi che all’improvviso diventano parole nuove sul foglio della mia vita. Ma questa volta mi dispiace per loro, per quello che si perdono. Perché per noi, un tempo io, Marco e Valeria, adesso io, Vinicio e Zeno, non è né Stalin ma manco il Capitale di Karl Marx, che sono secoli che tento di leggere fermandomi sempre a pagina tre. E’ qualcosa di diverso, è “comunistare”, che non c’è sul vocabolario e forse è un verbo che ho inventato io, ed è un sentimento strafelice che mi hanno fatto vivere i miei, quella cosa lì che mette addosso il sole quando è festa e non si va a lavorare e si sta in mezzo alla gente di ogni colore, circondati dalle bandiere arcobaleno e dalla musica che gira intorno, liberi di ridere e di sognare un mondo migliore, alzando il pugno chiuso.

Matteo Bonfanti