di Matteo Bonfanti
La mia prima volta tenevo stretta la mano di mio padre. Che era giovane, bellissimo, comunista, tormentato e barbuto e sembrava Che Guevara. Due passi avanti a noi camminava suo fratello, lo zio Franco, l’Alain Delon del Lario, sciupafemmine noto in tutto l’alto lago, ex calciatore delle giovanili del Lecco, straordinario giocatore di scopa all’asse nelle frequenti riunioni famigliari e, soprattutto, tifoso rossonero da tempo immemore.
Salivamo veloci verso il secondo anello di San Siro nonostante al fischio d’inizio di Milan-Sambenedettese mancassero più di due ore. Avevo sei anni, ero piccino picciò e mio papà mi tirava perché San Siro si stava riempiendo e di lì a poco se ne sarebbero andati i posti centrali. Con la faticaccia fatta, sedersi nel gradone in alto a destra sarebbe stata una vera e propria beffa. Perché per i miei famigliari il vero obiettivo della domenica allo stadio non era vedere la partita, ma accaparrarsi il miglior angolo del settore popolari della Scala del Calcio. Il problema è che tra Marco, mio papà, e suo fratello era impossibile trovare un accordo. Mio babbo si metteva da una parte, mio zio rilanciava due metri più in là, così per una buona mezz’ora. E io, che da piccolo avevo pensieri da grande, guardandoli, mi chiedevo se quei due non fossero un po’ toccati. Invece erano solo fratelli, l’ho scoperto anni dopo, con i miei due figli maschi, Vinicio e Zeno, il cane e il gatto. Si amano alla follia, ma passano la vita a menarsi, uguali a Marco e a Franco. Che sono stati sempre insieme, per discutere, litigare e, quindi, incazzarsi. Al Meazza il motivo del contendere erano Joe Jordan e Beppe Incocciati, a Natale e a Pasqua Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer e Mario Capanna con mio nonno Riccardo che si metteva in mezzo perché non capiva che, tra loro, in realtà, era solo il gioco iniziato da bambini.
Di quella domenica ricordo l’eccitazione che danno le bandiere e i cori e l’incredibile stanchezza. Da Lecco partivamo presto, alle nove del mattino, e il viaggio era lunghissimo, interminabile. Mio padre portava le cassette per il mangianastri della Ritmo di mio zio. E la colonna sonora era Roberto Vecchioni, che, tra l’altro, credo sia dell’Inter. Le sue canzoni non mi piacciono perché amo i dubbi e le insicurezze che nei suoi versi non si trovano quasi mai. Eppure ogni volta che mi capita di sentirlo alla radio mi commuovo. Penso al ragazzo che era mio papà, alle sue luci a San Siro, alla sua rivoluzione imminente, alla sua difficoltà ad amare me, mia mamma e mia sorella mentre appena fuori casa nostra lo aspettavano i compagni e le compagne per protestare contro il caro vita e la scala mobile. Lui era un leader e il tempo con noi gli sembrava sprecato e non gli passava mai.
Ma il Milan era un’altra cosa. E all’epoca gli piaceva da morire perché era in Serie B proprio come la sua sinistra, perché in panchina c’era Ilario Castagner, che, secondo lui, era comunista proprio come Franco Baresi, Alberigo Evani, Andrea Icardi e Mauro “Tasso” Tassotti. Erano i suoi eroi, forti,  coraggiosi, ma anche semplici, umili e, lui, giustamente, li vedeva tutti rossi. Come i tifosi: i ragazzi delle Brigate Rossonere dove c’era mio cugino Nicola, quelli della Fossa dei Leoni che avevano cacciato dalla Sud “quei fascistelli” del Commandos Tigre: “i neri nei distinti oppure la domenica dopo a tifare l’Inter, nota squadra di destra”. Sono passati trent’anni, il calcio e il mondo sono cambiati, mio padre, invece, è lo stesso. Quest’anno, giuro, me lo porto a Bergamo a vedere Atalanta-Livorno, nel settore ospiti, per novanta minuti a cantare “Bella Ciao”. E a mia mamma Valeria faccio preparare i famigerati panini con le polpettazze, immangiabile pranzo al sacco preparato da una colta professoressa di lettere (ma terribile cuoca) il sabato mattina per la domenica pomeriggio, serie di sacchetti che finivano nel cestino del secondo anello del Meazza prima ancora di sederci.
Quell’anno il Milan non partì alla grande. La mia prima partita allo stadio fu un misero pareggio: mio zio, incazzato nero, al triplice fischio minacciò di stracciare la tessera, mio padre, per la rabbia del 2-2, perse le lenti rigide che, allora, costavano duecentomila lire e per noi, che non navigavamo nell’oro, fu un mezzo dramma. Eppure quei due mi regalarono una delle domeniche più belle della mia vita: a contendermi. I due matti sostenevano portassi fortuna, quindi passai quel pomeriggio in braccio prima all’uno e poi all’altro. Fu una domenica piena zeppa di parole: mio padre, comunista, per il gioco, immerso nell’idea che il fondamento del pallone sia il gruppo; mio zio, democristiano di destra, per la giocata del singolo. Da direttore di un giornale mi porto dietro i loro insegnamenti: in qualsiasi progetto, calcistico, ma anche editoriale, i mediani che presentano l’Osio Sopra o il Baradello Clusone hanno la stessa importanza del centravanti  che fa le pagelle dell’Atalanta. Che, oggi, vado a vedere col Bari. Per Vinicio, sette anni, e per Zeno, cinque, sarà la prima volta. Vorrei che un giorno me la raccontassero.