di Simone Fornoni

Il problema è serio, far tornare la pace in città, in provincia, allo stadio, sui giornali, a Zingonia e dintorni. Apriamo subito una parentesi lunga come la fame. Dovrebbe valere, nel giornalismo o in quel guazzabuglio che gli somiglia per cui mi pagano a denti stretti da nemmeno due decenni, un paio di regole buone per chiunque. La rinuncia alla prima persona, perché l’io narrante è roba da scrittori e a fregar loro il mestiere si fa peccato, tanto la prosopopea emerge lo stesso, e l’imparzialità. Se la prima è stavolta un artificio necessario per intestarsi a titolo personale la proposta delle proposte, la seconda è un’aspirazione, una pia illusione, la più fuorviante delle chimere.

Ciò premesso, se uno non è testimone di un fattaccio tipo lo scazzo tra Gian Piero Gasperini e Pietro Serina nella pancia dello stadio di Monza, invece di chiarirsi a tu per tu davanti ai bolliti alla brianzola e al locale risotto giallo con la salsiccia, dovrebbe evitare anche solo di spargere ai quattro angoli della terra le versioni più o meno di comodo dell’accaduto, verità “de relato” come dicono gli uomini di legge. Non è intenzione dello scrivente. Il cui obiettivo è uno solo, diviso in due fasi correlate e necessarie: la pace pubblica dei due contendenti davanti ai tifosi, officiata da Giacomo Mayer che si può ben dire amico di entrambi nonché stimato da tutte le componenti del calcio bergamasco, uditorio e curve comprese; la fine, una volta per tutte, della polarizzazione di ogni dibattito in tema di Atalanta tra pro Serina e anti Serina.

Manco l’interessato, che di pallone ne capisce e se lo ritiene giusto ha il pieno diritto di fare la fronda facendo le pulci al mister (si vede che preferiva Stefano Colantuono, che magari si sfogava da romanaccio, quindi simpatico e senza alcuna malizia, su di me: a ciascuno il suo), avesse mai avuto l’intenzione di fondare o essere un partito tout-court. Un’abitudine deleteria, questa di far girare il mondo atalantino intorno alle opinioni di uno solo, quando la ricchezza del suono è nella polifonia, che ha sempre tranciato quantomeno in due l’opinione pubblica e lo stesso ambiente dei cronisti-commentatori di casa nostra, quasi fossimo tutti vicini di casa di un enorme ballatoio pieno di serve pronte a ciurlare nel manico, spettegolare e far manovrine da corridoio a sostegno di una delle parti in causa. Non parlo degli altri, che del resto, non sapendo accettarmi come il battitore libero da catenaccio che sono sempre stato e sempre sarò, mi hanno sempre ficcato nel sottoinsieme dei seriniani, quando in vita nostra ci saremo scambiati forse duecento parole in croce, di cui un quarto per concederci vicendevolmente il posto in coda ai gabinetti della sala stampa e l’altra metà della metà per scazzare sulla gestione del Covid-19.

A parte che a me, dal carattere adatto a un eremo in mezzo alle capre purché raggiunto da un apprezzabile segnale internet, altrimenti da casa o a spasso non lavoro nemmeno andando un po’ (tanto) di traverso perfino alla redazione che mi dà da mangiare e da bere, fa proprio schifo dover avere a che fare con altri esseri umani, da considerare un male necessario non essendo un grizzly o un varano, il nostro Mayer, il Decano, memoria storica della Dea da tifoso prima ancora che da giornalista, è l’uomo adatto a mediare tra i due estremi apparentemente non conciliabili. Fin dall’inizio della mia esperienza, immeritata e casuale, al seguito dell’espressione sportiva più amata dai conterranei, ho mantenuto l’opinione che per scrivere di checchessia serve un doveroso distacco. Senza capire che l’Atalanta e pure il Gasp sono un fatto emotivo, molto più che un fenomeno di costume o una religione laica. La squadra, dalla maglia sudata sempre, si chiede incondizionatamente di amarla. Il suo profeta, uguale.

Non tutti e non sempre sono stati d’accordo nel far coincidere l’una e l’altro, ma è il secondo a incrociare i destini del miracolo sportivo della prima. L’uomo di Grugliasco è l’eroe eponimo di ogni singola stagione del quasi decennio d’oro, portando Bergamo in vetta all’Europa (League). E facendo sognare anche il Pietro da Fontanella e Lovere, che del resto sono decenni che tiene attaccati tutti, dal bar ai lettori on line, ai suoi articoli, dal commentone del day after all’Attenti alla Diagonale spiegando i perché e i per come dei movimenti sulla scacchiera come nemmeno un manuale di Garry Kasparov. Sui motivi veri dello scazzo pesante di cui sopra, ormai oltre il parossismo e del resto non gestibile se non dagli attori protagonisti, meglio glissare ove non si conosca. Tutti gli addetti ai lavori, da quelli di campo a quelli da scrivania o tastiera, sono di norma permalosi e suscettibili. Andare avanti all’infinito non si può e non fa bene ad anima viva, coi morti che si rigirano nelle tombe perché l’unità e la compattezza non sono solo materia di spogliatoio.

E qui torniamo all’Atalanta-religione laica. Quale officiante più degno di una pax mayeriana che farebbe bene a tutti, specialmente a chi vi assiste senza capirci granché, di San Giacomo dall’Immacolata, uno che parla e frequenta sia Gasp che Serina senza per questo inimicarsi la controparte? Ora che il suo Oratorio San Tomaso è tornato in seconda col nostro a whatsappare forsennatamente mentre assisteva al ritorno in pompa magna di Charles De Ketelaere, ossia l’ennesimo miracolo gasperiniano, l’aura di santità lo circonfonde come e più di prima. Giacomino, salvaci tu dal girone infernale della Diatriba delle Diatribe. A chiedertelo, implorandoti in ginocchio fino a scomporsi i menischi, è l’umile scribacchino cui a volte, rimproverandolo per l’abuso di figure retoriche, suggerisci di scrivere come mangia. Detto, fatto: se i tifosi digeriscono anche ‘sto malloppone…