di Cristiano Forte
Un giorno scriveranno “La Renzeide”, per raccogliere e ordinare la sterminata quantità di annunci, proclami e promesse fatte dal Presidente del Consiglio Renzi. Diamo il nostro contributo a tale opera ciclopica pescando qua e là qualcuno degli argomenti trattati da Renzi e dalla sua allegra combriccola di mattacchioni.
IL TESORETTO – Partiamo dall’ultimo in ordine di tempo. Era appena stata diffusa la pessima notizia che bisognerà trovare 16 miliardi di euro per evitare che l’anno prossimo aumentino IVA e tasse sulla benzina che subito, appena il giorno dopo, il governo annunciava di aver trovato un “tesoretto”, oltre un miliardo e mezzo di euro che bisogna decidere come spendere. Una bella fortuna, considerato che fra un mese e mezzo ci saranno le elezioni regionali. Ma come avevano fatto a perdere un miliardo e mezzo di euro? Non l’avevano perso, in realtà non c’è mai stato e non si sa se ci sarà, nel frattempo però vorrebbero spenderlo. La spiegazione è questa: per quest’anno il governo ha stabilito, sulla carta, che il PIL crescerà più del previsto (0,7% anziché lo 0,6% inizialmente programmato), per cui lo stato avrà più entrate, appunto il “tesoretto”, che potrà spendere senza violare i vincoli di bilancio imposti dall’Europa. Tutto bene se non fosse che: 1) Da sempre tutti i governi (di destra e sinistra, indistintamente) sopravvalutano la crescita del PIL (o ne sottovalutano la diminuzione). 2) La previsione di aumento del PIL del governo italiano è superiore a quella fatta dagli organismi europei e dal Fondo Monetario. 3) I 16 miliardi per evitare l’aumento dell’IVA sono comunque da trovare. Insomma, il “tesoretto” al momento non c’è, se tutto andrà bene, ma proprio bene, ci sarà, nel frattempo incominciamo a spenderlo. In ogni caso i 16 miliardi da recuperare per evitare l’aumento di carburanti e IVA ci saranno comunque.
LA DIMINUZIONE DELLE TASSE – Il Governo dice che nel 2014 le tasse sono diminuite. L’ISTAT invece ha attestato che sono aumentate, di poco ma sono aumentate. L’inghippo è costituito dal famoso bonus di 80 euro. L’ISTAT non lo considera una diminuzione delle tasse. Il governo risponde che quello che conta alla fine è il netto in busta paga. Come dargli torto? Effettivamente se si considerano gli 80 euro, le tasse totali pagate in Italia l’anno scorso sono diminuite. Però… c’è un però! La diminuzione delle tasse riguarda massicciamente quelle pagate dalle imprese (-4,3 miliardi tra IRES e IRAP), mentre le famiglie nel 2014 hanno avuto 6,5 miliardi in più in busta paga grazie agli 80 euro, ma hanno pagato 5,4 miliardi in più di IMU/TASI,  2,2 miliardi in più di IVA e 0,6 miliardi in più di addizionali regionali e comunali. Insomma: con il bonus degli 80 euro le famiglie si sono ritrovate in tasca 6,5 miliardi in più, ma ne hanno anche pagati circa 8 in più di altre tasse. Colpa anche di comuni e regioni, certo, ai quali il governo ha tagliato i trasferimenti anche per finanziare una parte del bonus. È pur vero che le tasse sulle imprese sono diminuite, ma allora sarebbe meglio non parlare del “netto in busta paga ai lavoratori”, perché per i lavoratori dipendenti il saldo è negativo. Diciamo che c’è stata la volontà di alleggerire il carico fiscale alle imprese facendone pagare lo scotto alle famiglie, una scelta che può avere valide motivazioni economiche, anche se è originale che a farla sia un governo di sinistra.
LE RIFORME – “Riforme” è la parola più gettonata da Renzi. Le chiede l’Europa, non perché sia cattiva, ma perché ‘sta baracca di Unione Europea può stare in piedi solo se gli stati disastrati come l’Italia si impegnano a sistemare la propria legislazione in maniera decente. Il fatto è che ci sono riforme e riforme: le riforme richieste sono quelle che dovranno sortire effetti per l’economia, mentre altre non c’entrano proprio niente con “quello che ci chiede l’Europa”, perché non hanno nulla a che vedere con quello che l’Italia dovrebbe fare per migliorare il sistema fiscale, diminuire la burocrazia, aumentare la competitività, dare certezze agli investitori. Tanto per intenderci la riforma del Senato, la riforma della legge elettorale, la riforma della RAI, la riforma delle province non c’entrano niente con le urgenze in materia di economia. Suona bene elencarle perché anche loro sono “riforme” ma ciò che interessa è altro: ad esempio la riforma della giustizia civile, o quella del fisco o della pubblica amministrazione, oppure la riforma del lavoro. Per ora siamo fermi alla riforma del lavoro, di cui parliamo nel successivo, ultimo, punto, per il resto, dopo oltre un anno di “Governo delle riforme”, è buio pesto.
LA DISOCCUPAZIONE – Il mese scorso abbiamo assistito ad una gustosa serie di dichiarazioni dopo la diffusione di dati secondo cui a gennaio si erano attivati 79.000 contratti a tempo determinato in più rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. Spassoso il Ministro del lavoro Poletti che sosteneva che entro la fine dell’anno si potrebbe arrivare ad 1 milione di posti di lavoro in più (ci ricorda qualcuno?). Un certo numero di giornalisti, non si sa se lecchini o poco informati, parlava dei primi effetti della riforma del lavoro. Insomma, un trionfo. Qualche giorno dopo la doccia fredda: a parte che i contratti erano poco più della metà (si erano “dimenticati” di calcolare il saldo al netto delle cessazioni), ma è saltato anche fuori che la disoccupazione è aumentata. Com’è possibile? È successo che gli occupati sono diminuiti, ma c’è stata la trasformazione di un buon numero di contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Non così bello come si pensava, certo, però se la riforma del lavoro permette ad un bel po’ di lavoratori di avere finalmente un posto fisso può andar bene lo stesso. Peccato che la riforma del lavoro sia entrata in vigore il 7 marzo e solo gli assunti da quella data hanno il famoso contratto a tutele crescenti, mentre i lavoratori assunti a tempo indeterminato a gennaio rientrano nella vecchia normativa, ivi compresa la tutela dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Usando la stessa sgangherata logica comunicativa dei “governativi” potremmo dire che le assunzioni a tempo indeterminato sono aumentate a gennaio perché le imprese preferiscono il vecchio regime (art. 18) rispetto al nuovo (contratto a tutele crescenti). Naturalmente non è così. In realtà il Governo ha previsto, a partire da gennaio, uno sconto a favore delle aziende di circa 8.000 euro all’anno (per un massimo di tre anni) sui contributi da versare per i nuovi assunti a tempo indeterminato, per questo tali contratti sono aumentati; la riforma del lavoro non c’entra niente. A conferma di quanto sostenuto da più parti, e cioè che il problema è il costo del lavoro, non l’art. 18; nel frattempo si sono persi mesi per le infinite discussioni sull’articolo 18. A proposito, anche per questo sconto sui contributi è prevista una “clausola di salvaguardia”, cioè un modo per recuperare i soldi nel caso le richieste di decontribuzione superassero quanto stanziato dal Governo: se dovesse succedere scatterà automaticamente un aumento dei contributi! Sembra assurdo ma è così: per finanziare la decontribuzione a favore delle aziende per i nuovi assunti si aumenteranno i contributi a carico delle aziende per chi nuovo assunto non è. W l’Italia.

NELLA FOTO – Il nostro commentatore politico Cristiano Forte è al centro