di Matteo Bonfanti
Quando mi capita di essere un po’ giù, lascio la mia Panda arancione in un parcheggio a caso e vado a piedi perché camminare sa sempre rendermi felice. Basta poco, anche solo un quarto d’ora, le mie gambe si muovono, i miei pensieri si sciolgono, diventano semplici semplici, rarefatti, privi di forza, della stessa consistenza delle nuvole bianche. Tornando leggero, apro le braccia e guardo il mondo, di nuovo stupito della bellezza che mi circonda, rapito. Domenica in centro c’era la fiera del cioccolato e c’erano un sacco di bambini piccoli. Li osservavo, innamorato della loro immensa tenerezza di gambette cicciotte, di movimenti ancora insicuri, di manine e piedini che è giusto stiano in braccio perché è solo lì il loro posto. Chiudevo gli occhi, rivedendo i miei, ormai grandi, senza avvertirmi, in fretta, d’improvviso, che mi sembra di non avere avuto il tempo necessario e di averli coccolati giusto una decina di minuti. Da qualche mese hanno smesso di darmi il bacio prima di andare a dormire e mi manca. A volte, lo ammetto, li rivorrei piccini. Non tanto, mi basterebbe una settimanella al mese che prendo le ferie e passo le giornate a spupazzarmeli, noi tre ad abbracciarci feroci, uno sull’altro, appiccicati sul divano come un paio d’anni fa.
Ieri mi sono svegliato allegro. Mi succede, mi alzo ballando e mi scopro a cantare sottovoce le canzoni di quando io ero giovane e Jovanotti era spensierato. Bevo il caffè, mi accendo la prima sigaretta della giornata e mi metto a fare il conto di cosa va e cosa non va nella mia vita e mi pare che siano parecchie di più le vicende belle e luccicanti rispetto a quelle brutte e buie. E’ un attimo e mi compare in testa la foto del mio momento, e quasi sempre in primo piano ci sono i miei bambini, Vinicio e Zeno, che vanno verso gli otto e i dieci anni e sono in combutta tra loro e paiono Linus e Charlie Brown. Sono, insomma, nell’età dei Peanuts, quella in cui riveli il carattere che hai e l’uomo che sarai al prossimo giro di giostra, quando sarai un metro e ottanta per settanta chili di peso.
Come ogni genitore, sono orgoglioso dei figli che sto crescendo. Dicono, ad esempio, “Mi passi l’acqua frizzante, per piacere?” oppure “Stasera ci vediamo un filmetto su Sky Family?”. E io mi commuovo, li vedo geniali, illuminati, bravissimi, bellissimi, intelligentissimi, simpaticissimi, insomma due mini Super Man, il meglio che c’è sul pianeta Terra e probabilmente nell’intera Galassia. Penso sia normale, anche mio babbo e mia mamma mi vedono così nonostante continui a combinarne di ogni ed abbia la faccia zeppa di cicatrici per via di uno schianto in moto da ubriaco fradicio alle tre del mattino. Dovrebbero menarmela, invece mi amano. E credo che lo stesso sentimento muova i genitori dei peggio criminali, tipo il padre del boss della Camorra o la madre del gran capo della ‘Ndrangheta.
In famiglia c’è della magia genetica. Ieri sera io e Zeno siamo andati da mio papà. Nonno e nipote si vedono poco perché abitano a cinquanta chilometri di distanza. Eppure si adorano. Lo si nota dai continui sguardi che si dedicano. E che io sto a guardare.

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