di Matteo Bonfanti
Avendo una famiglia di zingari, ora al mare, ma dal cuore tenero che gli fa raccattare in giro animali storpi o comunque messi male, finisce che di quelle bestiole devo sempre occuparmene io. Che, forse, sono pure allergico al loro pelo. L’ultimo drammatico rapporto è tra me e Ennio, un gatto tigrato che ha la stessa sindrome di Arnold, il negretto del telefilm, ossia che non cresce. Vinicio e Zeno, i miei figli, hanno visto Ennio a un passo dalla morte a casa del nonno Franco, uno che ha fatto scoppiare una pecora. Non volontariamente, dice. E che tratta le galline come in un lager, in un pollaio dove ci sono quattro galli che si sono coperti di crimini atroci, una volta hanno addirittura accoppato a morsi due pulcini. Dal nonno materno, che vive in una cascina in Brianza, va così. E i miei bambini, che sono angeli, hanno salvato Ennio, appunto il micio, da una vita di stenti e di privazioni, portandolo nella ricca Bergamo, ossia a casa nostra, dove, però, loro e la loro madre, Costanza, mia moglie, si vedono raramente. Non mi lamento, abbiamo un esercito di parenti, ed è giusto che bisnonni, nonni, zii e cugini di primo e secondo grado frequentino Vinicio e Zeno che hanno un’età fantastica, 8 e 6 anni, e in più hanno due caratteri particolari. Sono allegri e ironici. E spesso sono irresistibili.
Succede così che le loro bestiole le debba curare io. Con tutti i sensi di colpa che comporta. Perché noi viviamo in un appartamento e i nostri vicini non vogliono bestie in giro. Sicché i gatti vanno reclusi. Ennio, pur che è malato, che come ho detto ha la malattia di Arnold, non fa eccezione e deve restare blindato per evitare le lamentele degli altri inquilini del civico numero tre. Ma a lui la cosa non va. Soprattutto di notte, quando dopo una giornata di duro lavoro mi metto sul divano a grattarmi, a bermi le mie due birrette giornaliere e a guardare in tv una delle mie tre serie preferite (Le regole del delitto perfetto, Fortitude e Backstrom).
Va detto che Ennio è un bravo tipo. Va alla porta e inizia a miagolare. Si limita a quello. Non mi attacca, non mi morsica né mi graffia. Si lamenta. E a me, che sono ferocemente per la libertà di me e degli altri, la cosa ferisce. Sono il suo carceriere, perennemente incerto se aprirgli l’uscio e renderlo finalmente felice, o tenerlo in quella gabbia che è il nostro appartamento per il volere dei miei figli che, se il gatto scappa, muoiono di tristezza. Allora faccio la classifica, i primi dieci a cui voglio bene. Vinicio e Zeno sono in testa ex aequo, Ennio occupa la nona posizione, subito dopo Cristina e Tella, le mie zie di Bologna, e poco prima di Lamberto, il temibile e polemico marito di una delle due.
Con una graduatoria del genere Ennio è fottuto. A meno che non si decida a parlare, in italiano che altre lingue non ne conosco, e mi giuri solennemente che va a fare quel che deve fare con la micietta bianca e rossa del civico numero 5, ma poi torna a casa. Che non è un albergo.