Michele Arrigoni, l’eroe dei Due Mondi, professionistico e dilettantistico, saluta il calcio giocato lasciandoci più poveri e immalinconiti. Dall’assaggio del calcio che conta, vissuto con la gloriosa casacca viola della Fiorentina, alla scommessa intavolata per ben due volte con una figura apparsa a più riprese ben più di un presidente, il compianto Diego Belotti. In mezzo, tanti anni giocati spaziando tra le categorie, infilando successi memorabili ma anche battute a vuoto e incomprensioni, come compete a quei numero dieci che, finiti sulla lista delle specie a rischio di estinzione, trovano più spesso una breccia privilegiata nel cuore di tifosi e buongustai del pallone, a dispetto delle croniche difficoltà scaturite con schemi soffocanti e tecnici spesso dogmatici. Ne esce, in sede di congedo, un bilancio che non è né figlio dei rimpianti, per quello che poteva essere e non è stato, né la carrellata di coccarde o medaglie al merito, raggiunte in una carriera comunque ragguardevole. Semplicemente, è il racconto di una passione sportiva, vissuta con la spontaneità del ragazzino che, per quanto fattosi uomo, non ha mai perso l’entusiasmo tipico dei primi calci al pallone e di quei sogni che competono a chi scopre di poter vantare estrema dimestichezza con la palla tra i piedi. Che sia l’esordio, in gare ufficiali, sul palcoscenico del professionismo, o la maglia personalizzata, con tanto di nome e numero, oppure ancora la presenza, virtuale, nel gioco virtuale per antonomasia, ossia Pro Evolution Soccer, poco cambia. Perché al dunque la vita è sempre un connubio di demeriti propri e avversità imposte dal mondo esterno. Quindi, tanto vale rilanciare, con la passione di sempre, nelle avventure che di volta in volta si parano dinanzi. Avventure che talvolta suonano da difficili ostacoli da dribblare, ma che con serenità e con il supporto di famiglie dai valori forti e insindacabili possono essere superate e addomesticate. Il resto è storia del giorno d’oggi. Padre premuroso, marito affettuoso, attento a sdoppiarsi sul fronte lavoro-vita privata, Arrigoni appende gli scarpini e apre ufficialmente l’annosa questione: cosa ne sarà del calcio, senza il numero dieci? Nella vita, come nel campo da gioco, come faremo senza fantasia e senza immaginazione?
Anzitutto Michele, raccontaci il tuo presente. Ne è passato di tempo dalla tua separazione dall’Atletico Chiuduno Grumellese. E poi ci si è messo il Coronavirus…
“Sì, effettivamente a novembre ho chiesto alla società di essere liberato e nei giorni successivi ho maturato la decisione di chiudere definitivamente con il calcio. Diciamo che c’è stata una concatenazione di cause. Vuoi per un discorso fisico, legato ai troppi infortuni dell’ultimo periodo e vuoi per la necessità di stare vicino a mia moglie e alla mia famiglia, dopo la scomparsa di Diego Belotti, ma allo stesso tempo la presa di coscienza di una verità ancor più amara: questo non è più il mio calcio, non è il calcio in cui mi riconosco. E’ arrivato un po’ tutto assieme, non credo ci sia una causa superiore all’altra. Di certo, è emerso dentro di me che, dopo tanti anni in cui il calcio è stata parte preponderante, era arrivato il momento di portare nuovo ordine alle priorità, dedicando più tempo a chi era stato troppo spesso lontano da me. Dopo la morte di Diego, mia moglie Laura si è ritrovata a gestire la “Parquet Clio Project”, mentre tra i tanti tormenti legati agli infortuni io cercavo di porre un rimedio, trovando se possibile ancor meno tempo di quando ero un giocatore in perfette condizioni. Così mi son deciso, non valeva più la pena di spendermi qua e là, tra allenamenti e terapie votate al recupero e alla prevenzione, oggi mi dedico stabilmente alla famiglia e al lavoro. Tanto più con la pandemia in corso e i tanti problemi che ne sono conseguiti. Come “Parquet Clio Project”, stiamo cercando di metterci la toppa, portando avanti il lavoro che in qualche modo avevamo garantito grazie a certi ordini, nell’attesa che l’allentamento delle restrizioni ci riporti in maniera ottimale in contatto con i clienti e i potenziali clienti. La ditta in qualche modo va avanti. E il calcio, per come si è messo negli ultimi anni, non mi manca per niente. Anzi, ora che tiene banco il Coronavirus, ci saranno tante società che chiuderanno e tanti presidenti non potranno più garantire la stessa disponibilità di prima, ma ce ne saranno altri che se ne approfitteranno. Sono stanco del calcio e dell’incompetenza calcistica”.
Chi è stato, e cosa ha rappresentato, per te, Diego Belotti?
“Diego rappresentava il presidente appassionato, che esemplifica il mio modo di intendere il calcio. Era un brontolone, ma buono come il pane. Ci teneva alla squadra e alla società e ha fatto del gran bene al dilettantismo, un po’ come accaduto, a Villa d’Almè, con Sergio Ferrari (oggi presidente del Lemine Almenno, n.d.r.). Sono presidenti che tengono a tal punto alla propria società da farne una sorta di seconda famiglia, una grande famiglia dove il padre-presidente vive in maniera passionale tutti i rapporti. Diego mi ha sempre trattato come un figlio, al di là del rapporto che poi ho costruito con sua figlia Laura. La Grumellese era la sua vita, la sua valvola di sfogo e non c’è dubbio che con la sua scomparsa se ne sia andato un po’ di quello spirito. E quegli anni vissuti, sempre in Eccellenza, tra Villa d’Almè e la prima Grumellese, rappresentano il periodo che ricordo più volentieri. E poi c’è Gavino Manca, il mio presidente a Curno, che presenta tratti molto simili a Diego e Sergio. Sono figure vulcaniche, che possono risultare antipatiche a qualcuno, ma fondamentalmente genuine. E in queste categorie servono come il pane, perché il calcio a questi livelli è fatto di fiducia e attaccamento”.
Parli di Eccellenza come se fosse il top della carriera. Eppure, agli inizi, c’era ben altro…
“Agli inizi c’era un allenatore cui devo molto, che è Giorgio Gatti, allenatore mio e di Teo Sala all’Alzano Virescit. Dopo l’esordio in prima squadra, ai tempi della C1, sono passato alla Fiorentina, ma l’esperienza è da ricondurre principalmente alla Primavera. Ci sono le due panchine di Coppa Italia, la panchina in campionato a Palermo – nel settembre 2004, fu 0-0 alla “Favorita”, al cospetto dei futuri campioni del mondo Toni, Grosso, Barzagli e Zaccardo – mentre Matteo Sala può vantare almeno una presenza in Serie B (giugno 2004, Cagliari-Fiorentina 3-1, i sardi volano in Serie A, mentre la Viola dovrà attendere lo spareggio con il Perugia per la certezza della promozione, n.d.r.). E’ stato come contemplare il paradiso, ma mentre lo osservavo l’ho visto scivolare via. Il rimpianto è sempre quello, o meglio dovrebbe essere quello, fintanto che la carriera prende un’altra piega. In realtà, non mi sono mai posto il perché. Preferisco pensare a una colpa esclusivamente mia, ma è pur vero che oltre al talento ci vuole tanta fortuna e ci vogliono delle persone che credono davvero in te, spronandoti per arrivare a certi livelli. Persone che vivono di calcio e che di calcio se ne intendono. Chiunque al mondo può dire che si poteva fare di più, per far sì che le cose andassero diversamente. Padrini non ne ho mai avuti e se devo pensare ad allenatori che mi hanno dato molto, scelgo, oltre a Gatti, Mario Astolfi, con me a Villa d’Almè, e Livio Sporchia, in quel di Curno. Preferisco pensare: non sono arrivato, perché non dovevo arrivare. Sono stato davanti alla vetrina, senza però fare parte di tutto ciò cui assistevo. E poi non avrò esordito in gare ufficiali, ma ho pur sempre potuto godere di una maglia personalizzata, con nome e numero. E questo, per chi ha vissuto di sogni, coltivandoli insieme ad una famiglia, rimane qualcosa di unico e indescrivibile”.
Curno e quel grande Curno che raggiunse l’Eccellenza è una di quelle esperienze tanto esaltanti quanto effimere, che così bene caratterizza la scena dilettantistica. Ma non trovi che passare dalla C2 alla Promozione sia un po’ troppo?
“La verità è che con certi presidenti può andare bene, mentre con altri decisamente no. Ai tempi del Calcio Caravaggese, dopo un anno in C2 e un anno in D, mi scontrai con il presidente Guerini e mi convinsi a cambiare aria. Era emerso il mio carattere, ero io a dover decidere la squadra in cui andare, a costo di girare le categorie, e così scesi in Promozione e scelsi di cambiare approccio al mondo del calcio, dividendomi tra lavoro e allenamenti. E il primo anno di Curno fu davvero esaltante, con una squadra, il “Luna Park Curno”, che dettò legge e un gruppo di compagni, i vari Carrara, Dinoni, Mondiali, Morè, che sono ancora oggi amici, da sentire e vedere ogni tanto, e che ancora oggi hanno tanto da dare al calcio. E con me, ancora una volta Teo Sala, che quando è in campo si trasforma completamente, ma che rimane un grandissimo giocatore e una bravissima persona. Dopo la vittoria in Promozione, l’Eccellenza e il mantenimento della categoria. Poi, Gavino Manca si convinse che non poteva proseguire e il grande Curno sparì, mentre io andai a Villa d’Almè, trovando per la prima volta “Pelle”, Roberto Pellegris, e un grande tecnico come Mario Astolfi. Lui è forse quello che mi ha capito di più, perché pur richiedendo molto sapeva infondere fiducia. E con la fiducia, la giocata viene più facilmente. Il Villa era una squadra forte, ma era soprattutto Astolfi a saper gestire tutto perfettamente. Fu un anno esaltante, ma anche lì, dopo il traguardo dei playoff nazionali, con una Serie D davvero a un passo, l’esperienza si esaurì con l’uscita di scena di Ferrari e Pellegrinelli”.
Poi la Grumellese, la parentesi di Cologno e la scalata compiuta con l’Atletico Chiuduno. Quali categorie mancano all’appello?
“In effetti, non ne manca nessuna, se consideriamo, tra allenamenti e le convocazioni in prima squadra, la Serie B e, in misura anche maggiore, la Serie A. Dopo la Grumellese, la discesa in Promozione al Cologno Frassati Ranica, ma a novembre mi convinsi che era meglio cambiare aria e insieme ad Alessandro Locatelli (attuale allenatore della Vertovese, n.d.r.) e Paolino Algisi (secondo di Magoni sulla panchina della Falco,n.d.r.) decisi di lasciare. Da subito il progetto dell’Atletico Chiuduno, che all’epoca era ancora in Terza categoria, mi intrigò e nel giro di due stagioni siamo saliti in Prima. Al primo anno di Prima mancammo il salto, con l’eliminazione al primo turno dei playoff, e alcune incomprensioni con la famiglia Gritti mi convinsero ad accettare la prima scommessa propostami da Diego Belotti e dalla sua Grumellese. Mi disse che se avessi superato i test atletici, avrei potuto ritrovare Grumello e la Serie D. Ci provai, ma non potevo stare senza giocare e allora lasciai. Dopo una mezza stagione a Verdello, ritrovando Pellegris, tornai all’Atletico Chiuduno, che nel frattempo era salito in Promozione. La fusione è storia odierna. Diego mi coinvolse per un progetto che contava sull’apporto di entrambe le parti, ma senza di lui non c’è lo spirito che lo identificava tanto bene e nel quale mi identificavo io per primo. Senza rimpianti, oggi è giusto farsi da parte”.
Chiusura dedicata alla tua Top 11. Chi mettiamo nella tua formazione ideale?
“Modulo 4-3-1-2, con “Arri” dietro le punte. In porta, in realtà, vorrei fare un’eccezione, perché scelgo alla stessa maniera sia Stefano Belussi, con me al Pergocrema in C2, che Marco Rama, portiere del Curno. In difesa, da destra verso sinistra, scelgo Diego Zangirolami, terzino del Pergo; Alessandro Locatelli; Carlo Marchesi (ancora in attività con La Torre, n.d.r.) e Diego Brembilla, con me a Curno. Pronto a subentrare a “Brembo”, il “Bomba”, Daniel Bombardieri, altro ex Pergo e che oggi prosegue con il dilettantismo. Davanti alla difesa, Nicola Bulla, con me a Villa; interno destro Nicola Valenti, oggi mister di successo dello Scanzo; interno sinistro, Vincent Lleshaj. Da trequartista, agirò alle spalle di due super punte come Teo Sala e “Pelle”. In panchina, mister Astolfi, tra i pochi a capirmi per davvero. Dei presidenti ho già detto, per me Diego Belotti, Sergio Ferrari e Gavino Manca sono un gradino sopra tutti. Piuttosto, un pensiero speciale spetta ai miei primi tifosi, mamma Maria Rosa e “Papà” Attilio. Mi hanno seguito in lungo e in largo, dal professionismo fino alla Terza categoria, negli stadi come nei campi privi di tribuna coperta. Tanta di quella passione che ho avuto la devo a loro. E un infinito grazie lo devo a mia moglie Laura, a sua mamma Sara e ai miei due figli, Diego e Nicolò”.
Diego, figlio di Laura e “Arri”: nel segno del nonno, di un presidente che ha dato tanto al calcio bergamasco. Nicolò, il primo figlio di “Arri”: come Nicolò Belotti, il secondogenito di Diego, oggi chiamato anch’egli a portare avanti l’attività di famiglia. Certe volte, la vita diventa un destino dal copione già scritto, cui non si può sfuggire. Grazie campione, le tue punizioni e i tuoi colpi di genio ci mancheranno moltissimo.
Nikolas Semperboni