Bene, anzi male, malissimo, perché ero convinto che il covid nel 2021 non ci sarebbe stato più e che nella mia vita sarebbero tornate le notti, il solo momento in cui mi sento al cento, insomma una persona con un quoziente intellettivo e un grado di ripiglio normali.
Fin da bambino ho sempre odiato le mattine, i raggi alla finestra, il bianco dell’inverno che invadeva la mia stanza, questa cosa drammatica che era svegliarsi presto, interrompendo di colpo il sogno che stavo facendo. Mi tiravo in piedi con l’incazzatura tutta intorno. Sentivo come una profonda ingiustizia sia allontanarmi dal letto, accogliente e caldo, che partire in Vespa con mio babbo diretti a scuola, passando una buona mezzoretta al freddo e al gelo dell’aria lecchese.
Al liceo soffrivo così tanto la sveglia che col mio socio dell’epoca, Manzella, per qualche anno abbiamo vissuto all’incontrario. Finivamo scuola, mangiavamo e alle due del pomeriggio andavamo a dormire. Io mi alzavo verso sera per gli allenamenti del pallone o per vedere la mia fidanzata. E poi vivevo la notte, studiando (poco), suonando (tanto) e scrivendo almeno una lettera d’amore al giorno. Alle otto ero a scuola, bello fresco, abbastanza vispo, perché era da un sacco che ero sveglio. Con quel metodo ero come stavano gli altri alle cinque e mezzo del pomeriggio, insomma nel pieno delle mie facoltà cognitive. Se di lavoro faccio il giornalista, dipende da quello, da sempre comincio alle due del pomeriggio e finisco intorno alle undici, quando gli altri stanno andando a dormire, e lì inizia il mio svago, ora affidato solo alle docuserie di Netflix.
Amo la notte, che è pure il titolo di una mia canzone, e che mi fa stare bene bene anche per tanti altri motivi, soprattutto perché ha quel luccichio di strade messe in fondo al cuore. E poi perché di notte s’incontrano i giornalisti, i musicisti, i tifosi e gli artisti, le persone che più mi divertono. Tanto tanto nella mia anima la fanno la luna e le stelle, che mi mettono ogni volta addosso un sacco di speranza.
Così ieri, barricato in casa per via del coprifuoco, e per la prima volta nell’idea che questa sfiga terribile durerà ancora un bel po’, ragionavo che bisognerebbe avere più equità nei provvedimenti, che va bene pensare alle allodole, la gente che si sveglia alle sette pronta a spaccare tutto e alle nove di sera inizia ad appisolarsi sul divano, ma sarebbe giusto fare un paio di decreti anche per noi gufi. Noi, dico noi noi, io e gli altri che ci svegliamo di notte, siamo molti meno rispetto alle persone che vivono il giorno, ma ci siamo, intere categorie di persone, i musicanti e i teatranti, ad esempio, chi come me campa scrivendo, ma anche chi sorveglia le nostre case e le nostre strade.
Quindi se io fossi a capo dell’Italia, ci penserei, invertendo il coprifuoco almeno un giorno la settimana, la domenica, in cui si sta tutti a casa non di notte, ma di mattina. Serrata per le stesse ore di adesso, sette, ma dalle 5 a mezzogiorno. E in quel giorno, belli distanziati e scaglionati, con la selezione all’ingresso, si può andare a sentire chi suona, vedersi dal vivo uno spettacolo teatrale, correre allo stadio, al bar a bersi qualche birrozza con due soci giusti, al ristorante con la propria bella o a giocare a calcetto in una decina (ovviamente solo se tamponati di fresco), vincendo la serata libera magari con la lotteria degli scontrini.
Anche perché non so voi, ma questa Italia rinchiusa, chiusa a chiave ogni notte, senza arte né parte, mi fa crescere l’ansia nello stomaco e ho sempre un velo di tristezza addosso. Ed è sacrosanto tutelare la salute di tutti, ma vedo tante persone che stanno passando fuori di testa. E pure quello è un problema e bisogna al più presto trovare delle soluzioni.
Foto tratta da lombardiasegreta.com
Matteo Bonfanti
Foto tratta da lombardiasegreta.com