Diceva Dario e io manco avevo diciott’anni: “Sappi che se scrivi di pallone, capiterà che rimarrai solo, perché noi siamo anche bravi all’inizio con le lettere d’amore, ma spesso finisce che la donna che abbiamo accanto si stanchi, perché ha bisogno della presenza, mentre noi non ci siamo mai, siamo sempre in redazione tra una partita e l’altra, persino per la diretta della peggio sfida di Premier League”. Così mi parlava allora il mio primo caporedattore, e io non gli credevo fino in fondo, del resto sono un uomo, diversamente dall’altra parte del cielo credo che non sia la quantità del tempo insieme, ma la qualità, quindi mi sono buttato nell’amore nella totale convinzione che il mio mestiere non sarebbe stato così nocivo alle mie relazioni sentimentali. Invece Dario aveva ragione, lontano lontano, immerso anima e corpo in un’Atalanta-Udinese di fine campionato, semino tra chi mi ama solo un’incommensurabile tristezza e una profonda solitudine e poco importa se sono bravo a trovare le parole giuste per raccontare i fantastici novanta minuti giocati dai bergamaschi. Per noi cronisti la vita è solo la partita, per chi ci sta accanto è altro: i panni da stendere, il rito della cena, due passi mentre scende la sera, darsi la mano, addormentarsi abbracciati. 
Così questo breve articoletto, scritto tra le pieghe della lunga diretta della storica finale di Coppa Italia tra Atalanta e Lazio, è per due categorie molto simili, gruppi che, magari mi sbaglio, ma penso siano entrambi formati da soli uomini, noi giornalisti sportivi tiratardi, voi tifosi che prima di tutto la Dea. Ho una certa età e ormai conosco le conseguenze dell’amore per il football, so che state subendo i peggio insulti da parte di mogli o fidanzate, donne mai come ora in crisi, perché non capiscono minimamente né le folle corse che state facendo per vedere i nerazzurri a Roma né il vostro totale disinteresse per la loro meravigliosa passera o per quello che vi raccontano del loro pomeriggio in ufficio. Sappiate che vi sono vicino e che ci sono dentro anch’io, che per il felice futuro della mia vita privata non dovrei essere qui, tappato in redazione, invece ci sono, sto aspettando bel bello un pezzo del nostro inviato Giacomo Mayer, articolo che, forse, manco arriverà, mentre mi leggo se gioca o non gioca Milinkovic Savic e le ultime dichiarazioni del Gasp, un uomo che adoro dal primo momento, un altro che fa parte della nostra razza, il calcio, poi tutto il resto, anche a costo di fare una fatica boia in quel che resta del mese tra le proprie mura, che non sono quelle del Comunale. 
Visti i casini a cui stiamo andando tutti incontro in questo maggio triste e piovoso, che almeno domani vinca l’Atalanta. Che gliene faccia quattro, con una doppietta di Ilicic e un gol a testa del Papu e di Zapata, che sia una sfida emozionante e indimenticabile, e che non vinca il migliore, ma la Dea, e se la finale sarà equilibrata, che succeda che il trionfo arrivi con un gol di culo magari di Freuler che non la mette mai. Perché il calcio è diverso da quel che capita nel mondo, ad esempio nel ciclismo e nel nuoto dove la medaglia d’argento è un vanto. Nel pallone vincere è il massimo dei massimi, arrivare secondi è la sfiga più cupa, il peggio che possa capitare. Quindi bisogna battere la Lazio e festeggiare, anche di essere così, appassionati di pallone.

Matteo Bonfanti