Tranne uno, il solo che ci menava il torrone per ogni cosa e che poi è arrivato fino al settore giovanile di una squadra di Serie A, da ragazzo ho sempre avuto allenatori meravigliosi, ironici e leggeri, padri impegnati a costruire uomini prima ancora che calciatori. Di alcuni ne ho già scritto, ricordandone l’importanza nella formazione del mio carattere. E ne ho parlato perché credo che trovare un bravo mister da bambino o da adolescente sia fondamentale tanto quanto avere a scuola un insegnante in gamba, di quelli che riescono a fare innamorare gli studenti della propria materia.
Settimana scorsa alla festa di Azzano ho conosciuto un sacco di responsabili dei vivai e di mister dalla dolcezza smisurata, straordinari maestri, ma anche splendidi educatori, tutti col sorriso sulle labbra, segno che il calcio bergamasco è in ottime mani sia per quanto riguardo i bimbi che le bimbe, piccoli giocatori spensierati e felici, proprio come i campioni della nostra Nazionale, alla conquista di Wembley mettendo al primo posto due cose, la forza del gruppo e la voglia di divertirsi. Bravissimo Roberto Mancini, un sognatore e un uomo di parola.
Sono passati un sacco di anni e non so se per i ragazzi di oggi sia ancora così. Per noi, invece, avere la maglia di una squadra di calcio era il massimo, quella originale firmata da un campione un sogno che si realizzava. Era la moda, io sfoggiavo in centro Lecco quella verde dei Celtic Glasgow, pagata dai miei un occhio della testa. Arrivavo a casa di sera, la lavavo nel lavandino, la stendevo e la rimettevo il giorno dopo tanto ne ero innamorato.
Era la primavera del 1992, avevo quindici anni, ero alla prima stagione con gli Allievi Nazionali dell’Olginatese dopo aver giocato tanti anni nell’Aurora San Francesco, la squadra del mio oratorio. Era tutto nuovo ed era stato un gran bel salto, difficilissimo nei primi mesi perché il livello dei miei compagni e dei miei avversari si era alzato parecchio. Non ero più uno dei più forti, ma uno dei tanti. In panchina c’era Mario Bartesaghi, un uomo dalla fantasia eccezionale, vigile urbano di Annone Brianza, innamorato perdutamente della Sampdoria dei gemelli del gol, appunto Vialli e Mancini, che stavano trascinando i blucerchiati alla finale di Coppa dei Campioni. All’inizio il Barte mi aveva fatto giocare un po’ dappertutto, terzino, ala, mediano, trequartista. Cercava la posizione giusta per me e l’aveva trovata a metà campionato, libero, un passo dietro agli altri, ignorando la linea di Arrigo Sacchi, seguendo invece le idee di Vujadin Boskov, che era appunto l’idolo assoluto del nostro allenatore.
Il sabato sera Bartesaghi ci telefonava a casa. Controllava che non fossimo in giro ad ubriacarci o a scopacchiare, ma rilassati e sobri sul divano. Quel giorno ci aveva fatto una promessa: “Ai due migliori di domani regalo le magliette originali di Vialli e Mancini, che sono due ragazzi d’oro, che ce le firmano e poi ce le regalano perché tengono da matti ai giovani come voi, che lottano per vincere”.
L’indomani giocammo, ovviamente benissimo, stravincendo una partita contro i primi in classifica, tutti perfetti, precisi, concentrati, determinati, con il nostro bomber, Claudio “Pule” Puledda, pressoché imprendibile. E il martedì pomeriggio, alla ripresa, Bartesaghi si presentò con le due magliette, stupende, della Asics, una bianca e una blu, sponsorizzate Erg, firmate dalle due stelle blucerchiate. Il nostro mister era stato di parola. “Ma facciamo che le tenete a turno – ci aveva detto -. Un paio di settimana a testa, perché siete stati tutti incredibili e Vialli e Mancini mi hanno detto di fare così…”.
Chissà dove sono ora le due casacchine, in quale armadio. Resta questo piccolo e bellissimo ricordo, che mi viene in mente ogni volta che vedo Vialli e Mancini in panchina, due grandi uomini al vertice del nostro calcio, uguali a tanti splendidi maestri che ci sono nel pallone lombardo, proprio come il Barte e i tantissimi allenatori bergamaschi conosciuti questo mese ad Azzano.
Matteo Bonfanti