di Matteo Bonfanti
C’è una piccola e meravigliosa cosa che mi è cresciuta dentro questa settimana proprio mentre le margherite si mettevano d’impegno a colorare il giardino fuori dalla redazione. C’è che magari la sanno tutti i lettori, ma uno forse no e allora la scrivo come fosse un regalo, che è quello che sono le parole, un dono leggero e morbido che si fa al mondo. C’è che ho quarant’anni, ma resto un’anima giovane, intenta a fare tentativi per evitare di far sanguinare il mio cuore e c’è che stavolta mi sento sulla strada giusta perché non è lastricata delle buone intenzioni che mi ha messo in testa mia mamma quando ero piccino. C’è che non mi viene più di fingere di essere tutto sommato un bravo ragazzo perché non lo sono e sto imparando ad accettarmi. C’è che è cominciata la primavera e molto fa questo, le giornate che si allungano, il piumino nell’armadio, la giacchetta di velluto ereditata dallo zio Carlo sempre indosso perché mi fa sentire bene, bellino forte. C’è che tra poco sarà la stagione dei temporali, dell’arcobaleno, delle passeggiate, dei concerti e degli incontri, persone che non ho visto mai e che adesso diventeranno importanti riempiendomi di sorrisi freschi perché nuovi. C’è che nel borgo i bar hanno iniziato a mettere i tavolini sui marciapiedi e a me viene l’idea che Bergamo sia meglio di Barcellona, perché è vero che i catalani hanno il mare, ma noi abbiamo Città Alta, che è fighissima, unica, una montagnetta nel sole. C’è che in ufficio stiamo vedendo Radio Freccia e c’è Iggy Pop che canta mezzo nudo The Passenger e io e Marco facciamo i soliti coretti stonati, a caso, e facciamo ridere, sembriamo due matti. C’è che venti minuti e arriverà Monica, il mio riparo, che adesso è a mangiare con la mitica Rina e ci berremo il solito caffè alla macchinetta fumandoci tre mozzi di fila e c’è che ci racconteremo come va, piacevolmente, chiacchierando d’amore e di giornalismo, che col pallone e Full, il suo cane, sono gli unici argomenti che davvero valgono la pena. C’è che ieri sera a Orio ho giocato e sono stato il peggiore, che non mi giravano le gambe, avevo la mira storta e il fiato di un ottantenne, ma mi sono divertito un sacco perché c’era Zio Ferdinand che non la prendeva manco se gliela tiravi addosso e io stavo a guardarlo perché era bellissimo, un uomo comico senza averne paura, nell’immensa dolcezza che circonda le schiappe che non mollano. C’è che poi volevo tornarmene a casa, ma ero in macchina con Ermal e ci siamo persi via, due pesci d’acqua dolce a nuotare in quella vicenda spassosissima che è parlare del più e del meno bevendo birrette rosse al bancone e c’è che abbiamo fatto le due e non avevamo ancora finito, potevamo tranquillamente andare avanti una settimana tanto ci eravamo riconosciuti a ballare con gli stessi sogni, lungo i medesimi pensieri. C’è che c’è qui Carmelo che ha la scrivania accanto alla mia ed è magico, mi mette tranquillità, mi fa sentire forte, indistruttibile. C’è che tra un paio d’ore vado a prendere a scuola i miei bambini che in questi ultimi tre giorni ho visto solo la mattina presto, un occhio chiuso e uno aperto mentre preparavano la cartella, e abbiamo un sacco da dirci sul valore delle carte Pokemon, e c’è che ascoltandoli mi volerà il tempo e mi basterà aprire le braccia per farlo anch’io. C’è che ho voglia che arrivi domenica sera: la pizza delle sette, Pippo Grossi che mi commenta a oltranza il campionato dell’Atalanta e i gol che ha fatto il Papu e poi la Stezzanese e la Vertovese che lottano al vertice del girone C di Promozione e siamo ormai agli sgoccioli, una vince, l’altra perde, ed è fantastico esserne tifosi. C’è che dopo tre anni mi sento finalmente qui e ora, non sto, insomma, perennemente con la testa da un’altra parte, lontano lontano nel mondo, e c’è che penso sia questo il segreto della felicità.