Così ieri è accaduto anche a me, un giornalista anche abbastanza informato sulla vicenda, che ha letto mille articoli di altrettanti esperti, tutti a raccontare “che è solo un’influenza un attimino più bastarda, ma niente di che”. Mi è successo proprio come il gruppo di vecchine che questa mattina al bar commentavano tra di loro le notizie della prima pagina de L’Eco, mi è capitato di sentire una paura fottuta del coronavirus. Tornavo da Lecco, era mezzanotte, la macchina scivolava veloce verso Bergamo. E in giro non c’era nessuno. In quarantatre anni, che sono tanti, un bel pezzo, che vedi un sacco di cose, se sei fortunato addirittura quasi tutto quello che c’è nel tuo Paese, per la prima volta ho guidato lungo una strada vuota, per di più la trafficatissima Briantea, la mia via, quella che collega le mie due famiglie, quella vecchia a quella nuova, la città dove sono nato a quella che mi ha accolto.
Poi nel Borgo, arrivato a casa, in via Santa Caterina, che ci sono il Bicerì, il Crocevia e il Chiringuito, tre bar in cento metri, e c’è chi fa festa pure il lunedì, ho parcheggiato ed era tutto chiuso, il deserto, manco le luci dei lampioni. E sono entrato in cortile, col buio, e mi sono guardato le spalle, come se la malattia fosse lì, un uomo grande e grosso ad aspettarmi per prendermi e farmi del male, che ne so, una botta in testa, un calcio sugli stinchi, un morso alla gamba.
Prima, la mattina, verso le undici, due panini e una birra per pranzo. Al supermercatino io e un gruppo di ragazzi giovani giovani, loro con la mascherina, un oggetto visto in tanti film catastrofici, mai dal vero, e che forse per questo mi inquieta. Sono uscito, ho fatto due passi, chiedendomi quanto sia davvero grave questa cosa e se dall’alto non ci stessero mentendo per non mandarci troppo in panico. Mi sono detto “faccio un giro, vado a trovare mio babbo, che la mattina la passa a leggere i giornali”. E al semaforo mi ha colpito un uomo orientale, probabilmente di origine cinese, fermo sulla sua Bmw, armato di mascherina, quella giusta, con la valvola in mezzo. Volevo fargli una foto perché mi sembrava un guerriero arrivato direttamente dal futuro, gli ho fatto cenno, è scappato, penso avesse paura che volessi sfogare la mia angoscia su di lui.
E il calcio, che è il mio lavoro, e che è l’unica cosa che c’è sempre da quando ho cinque anni e che nella vita mi ha fatto un’immensa compagnia e adesso che si è fermato mi manca. E poi a me che non ci sia una partita da raccontare rende tutto surreale, da romanzo, protagonista di un capitolo di Cecità. La stessa sensazione un attimo fa, al Blu Puro, chiuso, alle tre del pomeriggio, l’ora del mio pranzo. Non c’è il mio solito panino, tonno, pomodoro e maionese, non c’è l’Estathé, non ci sono le chiacchiere di Monica mentre leggo ogni frase della Gazzetta dello Sport e qualche titolo del Corriere.
E su Sky ripetono “non c’è da preoccuparsi, basta starsene un paio di settimane a casa, perché il vero casino è finire tutti contagiati col sistema che va al collasso”.
Ma forse è proprio questa l’ansia che sento dentro, restare la sera nel mio appartamento, senza neppure le voci della strada, che sono il sottofondo della mia vita, che da quando sono nato è bella perché è ogni volta all’aria aperta.
Matteo Bonfanti
La foto è de L’Eco di Bergamo