A Bergamo a gennaio c’è quell’aria irresistibile e frizzante che scende dalle sue montagne. Sa di neve, ha il profumo di quando ero bambino. Ha tanto di mio padre, i suoi due quarti che vivono in me, il lago, Lecco, Colico, Morbegno e poi la Valtellina tutta intorno, i Rapella, i loro pizzoccheri, i cannoncini con la crema, la cioccolata in tazza con la panna, le chiese e gli scialli che si mettono addosso le signore per via che il freddo è meraviglioso, ma, a certe latitudini, solo a patto di coprirsi bene bene. E c’è anche che in questi giorni ci sono altre due cose che a me fanno stare in pari appena sono fuori, le luminarie sul Sentierone, come se qui da noi fosse passata l’idea che sia sempre Natale, e in cielo la luna a fettine, che è una delle prime frasi compiute dette dal mio secondo, Zen, il mio perenne pupo anche ora che è più alto di me e che fa strage di cuori dalla via Emilia fino al West.
Il lunedì, che qui in redazione ho pochissimo da fare e che la gente è stanca e non ho quasi mai nessuno da andare a incontrare, mi prendo una mezzoretta e torno a casa a piedi navigando felice in ogni mio ricordo eccezionale. Non sto al telefono, cammino e mi appassiono al mondo, ai viaggi solitari che ogni volta incontro. E mi dedico quel minimo, con un pizzico di dolcezza soprattutto a causa della mia straordinaria curiosità. Così l’altro giorno, superata via Broseta, appena dopo piazza Pontida ad ascoltare un uomo su d’età che con una chitarra folk faceva una versione molto sua del Suonatore Jones. Sulle note di De Andrè raccontava come gli era andata in questi anni, abbastanza male, lasciato dal suo amore grande grande e irrinunciabile. Così gli ho messo due euro nel cappello per consolarlo col denaro, per una volta identico a mia nonna, quando il sabato all’una mi dava la mancia perché non c’era niente in me che andava in maniera sufficiente.
Ma non è questo. E’ qualcos’altro che ho bisogno di raccontare perché non sia più solo mio, ma di tutti, insomma per dividerne la sofferenza, per prendercene cura insieme oppure per lasciarlo andare tra le nuvole di questa notte di stelle, dai colori intorno a dir poco inebrianti. All’inizio di via Verdi una ragazzina dagli occhi azzurrissimi, piccina picciò, insomma uguale ai miei ragazzi, forse quindici anni, magari sedici o diciassette, magra, sporca, fatta, strafatta e sfatta, con appena addosso un maglione, a chiedermi la carità. “Devo arrivare a 20 euro per andare via di qua”, mi ha detto faticando a stare in piedi. E io avrei voluto dirle: “Sei anche figlia mia e adesso ti porto a casa, ti fai un bel bagno, mangi le cotolette impanate con il purè e vediamo tutti insieme un film bello, di quelli della Fox, e dormi che ne hai bisogno perché senza non si vive”. Ma non mi sono uscite le parole. Ho guardato nel portafoglio e ho trovato le banconote che mi restavano dal giorno, poca roba, niente di che, due cinque euro, che ormai pago pressoché col bancomat e ho in tasca sempre e solo spiccioli.
E sono ripartito a piedi, ma niente era più bello come prima.
Matteo Bonfanti