Leggere, guardare, parlare e ascoltare, vendere le idee che mi sono venute parlando con la mia gente, riderne, raccogliere tutto dentro al cuore, far passare nell’anima un sacco di voci, visi, mani e gambe per poi trovarne le parole.
Amo il mio lavoro, le mille sere come questa, nel silenzio della redazione. Scrivere mi accoglie tra le sue braccia e mi fa appoggiare la testa sul suo seno, mi toglie il berretto nero e inizia ad accarezzarmi i capelli con le dita delle sue mani grandi e forti. In sottofondo c’è sempre la televisione, non la seguo, ma mi fa compagnia. Qui in ufficio come da ragazzo in via Boccaccio, ma anche di notte a casa, in sala, ogni volta per cominciare a sognare. La tv è accesa e chiudo gli occhi, Vinicio e Zeno arrivano dalla loro camera e la spengono perché in onda c’è qualcuno che spara cento e passa colpi al secondo con una Calibro Nove. Da lontano sento i miei due ragazzi che ridono, parlottano sottovoce, “il papà si è addormentato di nuovo sul divano. Ce la farà mai ad andare nel suo letto?”. E lì mi sveglio, l’accendo di nuovo e ricomincio a dormire.
Dicevi ed eravamo due ragazzi, all’inizio della strada che ci avrebbe reso grandi: “Pensa ai figli dei ricchi ricchi, alla loro fortuna, al fatto che non devono lavorare”. E col tempo li abbiamo visti tutti, ammazzarsi di cocaina e poi di noia, di invidia e di rabbia, senza manco un piccolo amore per farsi consolare. Restano, li ho addosso ogni volta che mi trovo a cena con persone brutte ed arroganti, “tu, sfigato, che domani devi correre in ufficio…”. Un tempo li avrei pensati fortunati, adesso mi fanno pena, che non conoscono la bellezza dei giorni e ignorano che può capitare che le ore in redazione siano uguali ai raggi di sole o alle luci della sera.
Questa mattina ho dato una mano a raccogliere la pubblicità, ho chiamato ventidue persone belle belle, con loro ho chiacchierato di politica e di sport. Adoro vendere, quell’adrenalina, fa parte del gioco, e poi sento le mie radici, mia nonna Chiara che aveva una bottega, mio nonno Cesarino con la sua aziendina di prefabbricati. “Va bene, Matteo, fammi duecento euro, una mezza paginetta sul giornale di lunedì. Mandami la fattura che ti faccio il bonifico al volo”. Nel pomeriggio ho fatto il grafico, “riesci a ingrandire il logo e a fare il menù della domenica in corsivo”, “certo, ma minchia che fame che mi hai fatto venire, ma com’è il brasato che fai?”, “dai, Matte, vieni su a provarlo. E’ delizioso”.
Ora ne scrivo. E mi sono alzato col piede destro, quello sbagliato, con una malinconia nello stomaco capace che, se mi ci fossi messo d’impegno, mi avrebbe fatto piangere dalla mattina alla sera. Ma non avevo tempo e la redazione mi ha fatto passare tutto. Perché sto bene qui, in questo posto che è come stare a Sant’Agata Bolognese in quell’agosto lontano: salvo, in riva al fosso.
Matteo Bonfanti