Alla mia prima fidanzata, la Fra’, scrivevo più o meno una lettera al giorno. Passavamo insieme il pomeriggio, poi lei tornava a casa e io mi mettevo in sala, con la penna, il foglio e almeno un’altra ora per starle ancora accanto, questa volta tra le parole e il profumo della sua pelle, che mi era rimasto addosso, sulla pancia, tra i baffi e soprattutto sul collo. La mattina ci vedevamo nel cortile del Liceo e le consegnavo il mio lavoro. Ci davamo un bacio, dandoci appuntamento all’una, finita la quinta ora. Spesso succedeva che si mettesse anche lei, che in italiano era bravissima, così certi giorni capitava che ci scambiassimo le missive, grossomodo identiche, “ti amo e ieri fare l’amore è stato bellissimo, vorrei mangiarti un paio di volte…”. Non che fossimo due cannibali, semplicemente eravamo innamorati. Quando eravamo lontani, d’estate, c’era la posta. La busta era ancora chiusa, ma riconoscevo la sua calligrafia nel mio indirizzo in stampatello ed era un’emozione incredibile. Era come averla accanto. Poi sono accadute tre cose, io e Francesca abbiamo finito gli studi, ci siamo lasciati ed è arrivato internet.
Così non ho mai più ricevuto lettere. Mi sono innamorato di nuovo, ho scritto a chi amavo migliaia di pensieri, me ne hanno scritti altrettanti, frasi e parole sono diventate addirittura il mio lavoro, ma era qualcos’altro. C’era ancora tanto di quello che raccontavo un tempo a Francesca, c’era il mio cuore, c’era la mia anima, c’era l’arcobaleno, c’erano i miei sogni tutti in fila. Ma non c’erano più quel profumo e quell’emozione della carta.
Così fino a ieri, quando ho ricevuto la mia seconda lettera in meno di un mese. Il primo è stato Duccio, uno dei maggiori pensatori italiani, ma dalla calligrafia illeggibile. Per codificarlo ci abbiamo messo una decina di giorni, serate intere, ognuno a dire la sua, “ha scritto che i tuoi racconti sono pura felicità”, “no, guarda bene, piccolo piccolo, ma c’è in davanti, dice infelicità, insomma che sei uno scrittore triste che puzza”. E va beh, una diatriba continua, a seconda dell’umore tra me e i membri della mia famiglia. Per questo, credo, non ho sentito le emozioni di allora.
Poi però mi ha scritto Marinella. Ho trovato le sue splendide parole nuove incartate in una busta nella buca delle lettere. L’ho aperta, l’ho letta d’un fiato, con dolcezza mi ringraziava per le poche righe che qualche settimana fa ho dedicato a suo marito, il mio professore del Liceo, Silvio, un uomo eccezionale, scomparso troppo presto, senza che io sia riuscito neppure a dirgli “ti sono grato per ogni cosa che mi hai dato”. Ho annusato la carta, profumava uguale a quella di allora. E mi sono detto che la prossima lettera che scriverò sarà così, nell’immensa bellezza del cartoncino.
Matteo Bonfanti