Che poi, dopo pomeriggi come quello di ieri, mi frulla nella testa che sia tutta opera del dio del femminismo, che deve essere un convintino, insomma uno di quelli che non mollano mai, impegnato da un anno e passa a farmi guarire dalla malattia del patriarcato, morbo da cui sono affetto da tre decenni. Non so a che punto della guarigione io sia arrivato, resta che già da un po’ sento crescere nel mio cuore l’arguto seme della solidarietà per qualsiasi donna italiana, per la gran parte costrette a dividersi in mille e passa faccende, lavorare, pulire casa, crescere i figlioli, darsi al sesso col proprio omo almeno un paio di volte la settimana, uscire con le amichette per far due balle, le cinque più rilevanti. E il tempo vola. Ed è sempre poco. E alcune femmine si sciupano. E altre si attaccano alla bottiglia. Identiche a me quando mi trasformo nel casalinguo di via Malfassi e mi concedo la pausetta doppia Tennents prima di portare giù il vetro.
Come ieri. Le cinque di pomeriggio: finisco di lavorare, esco dalla redazione e vado a bermi un camparone col bianco col socio mio dei giorni migliori, Marco, nell’idea di trovare la carica per quello che mi aspetta, innanzitutto la tragicomica spesona settimanale alla Conad. Al supermercato fa fresco, pare di essere nel paradiso in terra, folate di aria condizionata sulla mia crapa mi fanno perdere la testa. Esagero, compro un sacco di cose, la metà abbastanza inutili, investo trentaquattro euri in pezzi di carne, sei hamburger, dodici costine e quattro salamelle, di cui i miei due figli, Vinicio e Zeno, quasi 19 e quasi 17, lunghi e muscolosi, che arriveranno a cena affamati uguali ai lupi, vanno ghiotti. I minuti passano in un battibaleno, va così quando ci si diverte, un quarto d’ora esatto lo perdo per ascoltare il Calabrese, macellaio in gamba, ma dalla chiacchiera facile. Mi racconta un aneddoto di quelli tosti, di uno che aveva preso da lui dei petti di pollo, parecchi, e se li era scordati in maghina tre giorni, “e glielo avevo detto io: tranquillo, Giovanni, mettili sotto il sedile se devi fare altri giri… Matteo, tu non farlo mai, porta subito a casa la spesa. Promettimelo…”. Lo rassicuro, mi consegna i miei sacchettini e mi lascia andare. Mi reco alla cassa con profonda soddisfazione e giubilo perché sono stato attentissimo alle offerte. Do la tessera a Marco, il mio cassiere preferito al mondo, fighissimo, faccio due calcoli guardando i soldi che ho nel portafoglio, settanta euri, mi dico “avrò speso quello”. Invece è più del doppio, 142,44, “e per fortuna che sei sul pezzo, altrimenti erano 180 e passa…”. Sti cazzi.
La faccio breve, i sacchetti sono sei, abito in una mansardina di pregio al quinto piano di un palazzaccio senza ascensore. Il posto auto vicino non c’è, ma c’è la temibile Ausiliaria 8132, avida di multe. Sicché parcheggio a casa di Cristo, nei bianchi di via Ghislandi, faccio tre giri, sono stremato, peggio che se fossi andato alla Fit Active. L’appartamento è un cesso. Mi metto a testa bassa a pulire, evito di fare il pavimento, ma tolgo tutte le cartacce, poi porto giù la spazzatura, quindi organizzo la cena.
Grigliatona, che coi quaranta gradi della tana non è il massimo delle idee, ma i miei ragazzi vogliono quella. Arrivano i miei tre commensali, Vale mia, e i due figlioli giganti. Il clima si surriscalda, ma per fortuna nessuno muore. Sto ai fornelli, di ritorno dalla palestra Vinicio è una furia e si pappa quattro hamburgheroni, due salamelle e due costine. Si parla, trovo la forza per dire anche due minchiate delle mie.
Poi all’improvviso tutto finisce, la casa torna a rischio arresto da parte degli omini dell’Asl, ma rimando a domani. Stremato, mi attacco alla bottiglia sentendomi tale e quale al Papa Bono, Giovanni XXIII, parafrasandolo per voi, “date una carezza alle vostre donne”, che fanno ogni giorno una fatica boia.
Matteo Bonfanti
Nella foto: io, casalinguo stremato che si attacca alla bottiglia


sabato 19 Luglio 2025


