Il calcio è la disciplina più amata al mondo anche perché ci si può dividere su un’idea, nel caso che racconto “Papu no, Papu sì”, e diventare improvvisamente amici perché della stessa famiglia, la più bella che c’è, quella del pallone. A me è accaduto con Diego Lacanna, un grande imprenditore bergamasco, ma soprattutto un uomo che vive la sua vita sorridendo, innamorato pazzo della sua Atalanta, passione immensa fin da quando era un bambino delle case popolari di Monterosso, il quartiere del Gewiss Stadium. Così, la prima volta che ho sentito Diego al telefono, è stato per via di un nostro articolo in cui criticavamo la società orobica per aver venduto l’ormai ex capitano nerazzurro. Immediatamente mi ha colpito la sua allegria e la sua immensa intelligenza. “Vedi, Matteo – dandomi subito del tu – Percassi ha dimostrato di essere un grande, un capitano d’azienda che fa scelte per preservare il gruppo. Se un dipendente ha dei comportamenti che spaccano il team, bisogna allontanarlo. E’ la famosa storia della mela marcia. Il Papu è stato uno dei calciatori più forti della recente storia nerazzurra, ma se il nostro presidente avesse tentennato, facendolo restare a Bergamo, si sarebbe creato un precedente pericoloso. E poi è anche una questione di ruoli, Percassi ha uno splendido dirigente, il migliore di tutti, che grazie alle sue intuizioni ha reso grande l’Atalanta, rendendola tra le realtà più solide del nostro campionato. Si chiama Gasperini. Un buon capitano d’azienda non deve mai sovvertire i ruoli dei propri dipendenti, il dirigente, appunto il Gasp, dà gli ordini che ritiene giusti agli operai, appunto i calciatori, Papu compreso. Se accade il contrario, diventa l’anarchia, in campo come in azienda. In ultimo, non certo per importanza, la riconoscenza, perché, se è vero che Gomez ha aiutato la Dea a diventare una grande d’Europa, è altrettanto vero che l’Atalanta ha trasformato il Papu, facendolo diventare un fuoriclasse”.
Idee importanti e anche giuste. Così prendo la mia macchina e decido di andare a trovare Diego nella sua azienda per una lunga intervista da pubblicare sul nostro giornale. Ci tengo a conoscerlo di persona, perché chiacchierare con lui al cellulare è stato un sacco interessante, straordinariamente cortese, curioso di ascoltare le mie ragioni, ma pure fermo nelle sue posizioni. Vado all’Htp, gioiello che produce connettori di tutti i tipi e che ha sedi in tre continenti diversi, qui da noi, a Brembate Sopra, in Polonia, negli Stati Uniti e in Cina. Ufficio bellissimo, zeppo di magliette atalantine, vedo quelle di Gosens, di Hateboer, di Zapata e… del Papu. E iniziamo a chiacchierare di tutto, ovviamente partendo dalla Dea… “Che dire, Matteo? L’Atalanta è la mia grande passione da quando sono bambino. Sono nato a Bergamo da genitori meridionali, della Basilicata. Una domenica mio papà mi ha portato allo stadio. Da lì in poi ho sempre seguito la Dea. I migliori anni? I nerazzurri del Mondo restano nel cuore, ma la mia preferita è questa, targata Gasperini, sia per i trionfi in Italia e in Europa, ma soprattutto per via del gioco. Penso che il Gasp sia uno dei migliori allenatori che ci sono oggi al mondo. La sua genialità è nel gioco, nella filosofia che la migliore difesa è l’attacco. La Dea attacca in dieci, con Toloi e Romero, due giocatori fortissimi, che partono dalla difesa, proponendosi in avanti. Si crea una superiorità numerica incredibile, l’Atalanta dà sempre l’idea di essere fortissima. E’ l’innovazione di Gasperini. Credo che si debba a questo il fatto che con lui i giocatori si trasformano, i tanti che abbiamo ammirato in nerazzurro e che una volta che vanno in un’altra piazza si ridimensionano. Gasp permette ai calciatori di esprimersi nel migliore modo possibile perché li lascia liberi di giocare, di tentare la giocata. Tanti giocatori atalantini di questi anni stanno in campo con gioia. E quando si è felici, si lavora al meglio e si centrano traguardi impensabili”.
Capisco che Diego è un manager identico a Gasperini e un capitano d’azienda molto simile a Percassi quando una sua dipendente passa a portarci il caffè. Si sorridono, c’è una grande sintonia. Così mi incuriosisco sulla storia personale del nostro esperto di Atalanta. “Abitavo nella case popolari di Monterosso – mi racconta Diego -. A scuola ero bravo, ho fatto ragioneria e ho subito iniziato a lavorare perché non eravamo una famiglia ricca e fare l’università sarebbe stato difficile. Fin da subito sono diventato dirigente dell’azienda che mi aveva assunto, perché ci tenevo tanto, la sentivo come una famiglia. Per una serie di coincidenze legate a un mio amico commercialista nel 2003 mi sono messo in proprio, dando vita, appunto, all’Htp. Sono partito con tanti sogni e tanto coraggio, senza sapere quasi niente dei connettori, facendo per un anno il venditore porta a porta. Ed ora eccomi qui, con un fatturato intorno ai diecimilioni di euro, a capo di un gruppo che ha anche una sede in Cina con centotrenta dipendenti. Mi ritengo una persona felice e fortunata anche grazie alle persone che lavorano con me. Non mi sento il padrone, ma un uomo a capo di una grande famiglia che ha il cuore in Italia, la testa a New York e le mani in Cina”.
Diego ha gli occhi che sorridono, ascoltarlo mentre si racconta dà un immenso piacere anche per via della grande umiltà e dell’autoironia, qualcosa di bellissimo che hanno in pochi. “Sai, Matteo, io ho fatto l’arbitro. Ho iniziato con Messina. E mi accorgo di quanto sia stata un’esperienza formativa nella mia vita, insegna a gestire le persone, senza subirne la pressione”. A Diego scappa una risata… “Sì, una volta ho pure espulso mio fratello. Excelsior-Malpensata, prima l’ho sgridato e lui nulla, poi l’ho ammonito, ancora niente, quindi l’ho espulso. Quella sera a casa una litigata infinita. Si meritava il rosso e io non potevo fare sconti perché era un familiare…”.
Altro aneddoto divertentissimo. “Arbitravo la Primavera del Milan, in tribuna c’erano Sacchi e Berlusconi. Finisce la partita e mi vedo arrivare Silvio. Mi abbraccia e mi fa i complimenti, mi dice: sei stato bravissimo, hai diretto la sfida col piglio del fratello maggiore, ti ringrazio, Diego. Inutile dire quanto all’epoca i complimenti di un grande uomo di calcio come Berlusconi mi avessero fatto piacere”.
Diego è simpatico, profondo, ma anche leggero. Parliamo di tutto. Gli chiedo cosa pensa dell’Italia, che non riesce mai a fare il salto. “Per lavoro ho girato tanto. E credo che il problema della nostra economia sia una burocrazia che taglia le gambe agli imprenditori, ma anche ai lavoratori. Ci sono momenti che potrei assumere, ma ci penso mille volte, perché le leggi in Italia non permettono l’elasticità fondamentale per fare impresa. Un’azienda ha bisogno di cambiare a seconda dei momenti, a volte ingrandirsi, altre fare il contrario. In America o in Cina si può, da noi è difficilissimo”.
Avanti con mille racconti di vita. E se un giorno Diego lo vorrà, mi piacerebbe scrivere la sua biografia. Ora me li tengo per me, perché un articolo ha spazi definiti, che non si possono superare, altrimenti diventa un libro.
Che dire? Solo come Diego mi ha salutato, per fare capire ai lettori la sua cortesia, un grande imprenditore che non ha mai perso il suo cuore. Dopo due ore e passa di parole, tantissime mie, mi accompagna alla porta della sua azienda, regalandomi due bellissimi ombrelli, vista la pioggia e io che sono senza, firmati Atelier 19, negozio di alta moda che fa parte del suo gruppo. “Sei un ragazzo in gamba, Matteo. Grazie del pomeriggio passato insieme. Ti aspetto quando vuoi”.
Matteo Bonfanti