di Matteo Bonfanti

Amo i maledetti. Maradona più di tutti. E da bimbino non so quanti rigatoni Buitoni ho fatto mangiare alla mia povera famiglia. E mia mamma s’incazzava perché le piaceva la Voiello, sempre di Napoli, ma più figa, forse di sinistra. Mia sorella Chiara, la più normale tra noi, tifava invece per la Barilla. Stava insieme a Fabrizio che era della Roma. E coi punti voleva farsi la maglietta di Renato. Andavamo a fare la spesa al supermercato e sulla scelta della pasta pareva la guerra: lei a caccia di bollini giallorossi, io partenopei. Alla fine ho vinto io: agli allenamenti dell’Aurora San Francesco con la maglia di Diego Armando, anche se, fin dai pulcini, ho sempre giocato mediano: a correre e a picchiare gli avversari che avevano addosso il numero dieci, quello di Maradona. A me spettavano il quattro o l’otto: di Bagni, Crippa, Bonacina, De Napoli e Gattuso. E guai a tentare un dribbling. Per quello c’era Gando, che tutt’ora è il mio migliore amico, classe cristallina, visione di gioco e gol da fenomeno, dieci anni insieme nel rombo di centrocampo disegnato per noi, ad agosto, da ogni allenatore che ci ha avuto in rosa, il buono, lui, che è anche bello, e il cattivo, io, che non sono neppure carino.
Sono un muscolare, in campo, nella vita, pure a scrivere: la frase che non decolla, i pensieri spesso alla rinfusa, buttati giù per arrivare alle fatidiche tremila battute. Ma non provo invidia per i fantasisti. Li amo alla follia: Maradona, Gullit, Baggio, Del Piero e Doni. Quelli sui giornali: Pelucchi, Dell’Orto, Severgnini, Travaglio e Carosi. Io no, per tirare fuori un articolo come si deve, ci metto fatica, ore, passione, passo e ripasso il testo, limo le parole. Come quando giocavo: “Quanto s’impegna quel Bonfanti, avesse i piedi arriverebbe in Serie A”. Non sono finito nemmeno in Eccellenza, ho smesso che giocavo in Prima, a Dubino, il ginocchio che cede per la sesta volta, l’ambulanza sul campo, mio babbo che mi guarda dalla tribuna e mi dice mai più, perché stare un mese sì e un mese no in ortopedia non è vita.
La lunga prefazione per dire che Marko Livaja mi piace da morire anche se, lo so già, mi farà incazzare da morire. Domenica ero a vedere Atalanta-Bari e l’attaccante di Spalato faceva quello che voleva: prendeva palla e saltava l’uomo con una facilità impressionante, quella del genio. Che, sempre, è indisciplinato, un po’ stronzo perché indisponente, rissoso, ma straordinariamente affascinante. Perché ha qualcosa in più, nel fisico e nel cervello. Guarda Carmona, in cui io mi immedesimo assai, e gli viene da ridere. Cento palloni del cileno non valgono un solo tocco del croato. Che quest’anno ci dividerà, spesso seducendoci, alcune volte abbandonandoci, sempre entusiasmandoci. Non lo farà Carmona, a cui daremo sette in pagella per l’abnegazione che manco so bene cosa voglia dire. E non lo farò neppure io nei miei modesti articoli da giornalista pedalatore.