4-3-3, 3-5-1-1, 4-4-1-1, 3-4-1-2. Tra decollo e arrivo a destinazione, gli inevitabili scali tecnici per scongiurare pericolosi abbassamenti di quota. Voli pindarici che per qualcuno, sulla Stefano Colantuono Airline, rimangono sogni mostruosamente proibiti. Nell’infinito giro di valzer delle strategie, qualunque stipendiato coi tacchetti ai piedi privo di adeguato pelo sullo stomaco rischia di smarrire le coincidenze. E di rimanere su una scomoda panchina in attesa di un imbarco troppo spesso part time, come Marko Livaja. L’Atalanta d’oggigiorno è un cantiere che in corso d’opera cambia anche i ponteggi, per non far crollare la casa metodicamente costruita della salvezza. Ma il croato, con il Bologna, non ha scuse: il ruolo di capocantiere deputato a cementare i mattoncini della vittoria sarà tutto suo.
Merito delle parole da chiodi rivolte al quarto uomo dall’architetto di ogni finalizzazione del gioco, quando il sole dell’Ardenza ha lasciato spazio alle ombre disciplinari del tunnel. E così il ventenne di Spalato, che a differenza dello stizzito bomber German Denis nella disfatta labronica ha accumulato solo trentotto minuti nelle gambe prima di cedere alla ragion di stato (ovvero Baselli, più utile di lui in dieci contro undici dopo il rosso a Carmona), ha davanti agli occhi un’altra prova del nove. Per dimostrare che le promesse estive non erano le solite boutade da marinaio poco navigato, e che i pochi lampi con cui ha fin qui squarciato il cielo nerazzurro di gioventù e genialità pallonara non gli hanno paradossalmente fulminato le lampadine dei riflettori. La sontuosa doppietta agostana al Bari in Coppa Italia (destro e sinistro) e l’incornata della vana speranza di Parma sono ricordi lontani, così come il modulo a tridente che durante la preparazione gli consegnato la ribalta pur obbligandolo a partire dalla corsia (vedi doppietta nel 5-2 all’Udinese nel Trofeo Bortolotti). Finiti ufficialmente i giochini da playstation in occasione della primissima virata stagionale alla difesa a tre buona a matare il Toro, dalla terza alla decima giornata il nostro il posto fisso l’ha visto col binocolo (non pervenuto con Chievo e Lazio), anche perché nel frattempo il profeta di Anzio aveva preferito ruminare l’antica saggezza dello schema col trequartista a una sola punta.
Peggio che vagare di notte con gli occhiali scuri, per il presunto asso dalmata dal carattere increscioso e incontrollabile almeno quanto i tatuaggi e la crestina sormontante la crapa. Anche se quella brutta esibizione sotto le stelle del 25 settembre nella terra di Verdi, delle tigelle e del Parmareggio aveva regalato scaglie purissime della sua scienza calcistica ancora acerba, compreso quel gol del 4-3 (da subentrato a Raimondi: chiàmasi “mossa della disperazione”) a undici e spiccioli dal triplice fischio. Una perla rimasta unica, a infilarsi in un rosario di scene mute e recriminazioni per l’impiego da bassa manovalanza. Ma dalla seratona poco meno che magica con l’Inter dell’ultimo infrasettimanale, complice l’ennesima revisione tattica, rieccolo a fianco del Tanque, in posizione molto meno defilata da quella che ha imparato a odiare grazie alle vacche magre di uno start di campionato da pollice verso. Il rendimento non è stato davvero un granché, ma adesso la presenza che fa ombra è costretta in tribuna. E il palcoscenico è tutto per il numero 7, quello dalla chioma da Cirque du Soleil, con Maxi alle spalle e il Professore Cigarini a dettare le geometrie. Guarda caso, i due che gli avevano servito gli assist per i gol nei match con qualcosa in palio. No, per la rivalutazione del Marko fallire la prova non è lecito.
Simone Fornoni