Io non so se questa cosa bella bella dipenda dal coronavirus, ma mi piace pensare che pure una sfiga tanto grande, che addirittura da due settimane sta fermando il lavoro che faccio da vent’anni, possa essere una possibilità di crescita. Resta che da quando c’è questa malattia qualcosa è cambiato, due persone meravigliose, Gigi Foppa e Igor Trocchia, diversissime, ma mosse dallo stesso viaggio, che è mettersi costantemente in gioco perché il mondo sia migliore, che sia almeno un posto che ci faccia sorridere, mi hanno aperto la loro casa. Prima del cataclisma arrivato dalla Cina, preso da mille partite, facevo interviste solo al telefono, due voci al cellulare, dieci minuti scarsi, altri cinque su WhatsApp per confezionare il tutto, mille parole messe in fila sul mio pc dal mio cuore di panna. Poi via senza manco rileggere, il pezzo immediatamente in rete, costantemente a caccia di visualizzazioni e di mi piace.
Ora, invece, ho tutto il tempo, una lunga mattinata a Zanica, oggi un intero pomeriggio a Seriate. E mi accorgo che il mio mestiere non è solo sentire le risposte che arrivano in un breve e drammatico interrogatorio sulla vita e i suoi perché, ma è molto di più, l’immensa opportunità della complicità degli sguardi dopo una frase sui propri genitori o su un mistero come l’amore, il gioco che fanno le mani di fronte a un ricordo, i sorrisi, le risate, come si veste chi mi accoglie, quanto ha voglia di raccontarsi chi ho di fronte sentendomi chiacchierare di Gasperini, Ilicic, Toloi, del Papu, oppure mentre gli dico i miei dubbi del momento.
Adesso ammetto che sono stato da due uomini che hanno aspetti eccezionali, Gigi e la sua irrinunciabile propensione al mare, al sole, all’allegria dei giorni per lui e per tutti quelli che ha intorno, Igor che sogna che il nostro Paese diventi normale, senza più razzisti e bulli, che sogna ad occhi aperti che i brutti e i bruti se ne vadano immediatamente dal nostro gioco, the italian job, i campi di calcio di una nazione che nella disciplina più figa sul pianeta Terra è stato per quattro volte campione mondiale. E i due sono speciali, fuori categoria, che a uno gli si avvicina Del Neri, D’Alessio e Caniggia, all’altro Mattarella, Lippi e Albertini, entrambi bergamaschissimi (pur che uno è mezzo sardo, l’altro di sangue napoletano), unici, in quel viaggio che solo gli illuminati.
E allora penso che io, anzi noi, dico i giornalisti, se siamo così in difficoltà è perché continuiamo a raccontarvi storie, ma senza il tempo necessario, che lo facciamo ogni volta col misurino, presi come siamo dalla sovrapproduzione di un lavoro in crisi perché sta cambiando troppo in fretta, cinque minuti al giorno dedicati anche a chi è eccezionale. E nessuno va più in edicola e capisco pure perché è finita così, che il nostro cane ha cominciato a mordersi la coda e da questo casino non riusciamo a venirne fuori.
Per fare bene quello che ci chiedono di fare, serve tempo, non solo le parole, ma pure scegliere chi e per cosa, poi guardare, guardarsi e osservare. Ringrazio il coronavirus, che mi sta dando questa possibilità, ovviamente sono grato a Gigi e Igor, che qui da noi, dico a Bergamo, fare entrare qualcuno a casa propria è uno straordinario gesto di apertura mentale, oltre che una splendida idea di accoglienza. E passata l’epidemia, sempre che finisca, voglio continuare in questo viaggio, un giorno la settimana a casa di una persona che stimo, tra quadri, coppe e coppette, foto appese di figli e di figlie ormai grandi, cimeli di un tempo che fu, piatti sporchi da lavare, crespelle dell’Esselunga, panni stesi ad asciugare, insomma questa cosa preziosa che è sentire come le persone abbiamo deciso di vivere la vita e che vale molto di più di una risposta con mille emoticon addosso su Facebook o su Instagram.

Matteo Bonfanti