Tiro mancino. E’ Gigi Riva, nessuno come lui. Senza compilare classifiche, sempre posticce, è stato il più grande calciatore italiano dell’era moderna, quella, tanto per intenderci di Pelè e di Beckenbauer. E proprio loro tre si sono affrontati in partite, ormai mitiche, entrate nella storia del calcio mondiale: Italia-Germania 4-3, “el partido del siglo”, e Brasile-Italia 4-1. In Messico, mondiali 1970. E il lungo andare della vita umana ha voluto che se ne andassero da questa terra tutti nel giro di pochi mesi. Per noi giovani di quegli anni, insieme alla “rivoluzione”, ai Pink Floyd, a Miles Davis, secondo i gusti, loro tre erano una presenza costante e continua, almeno per chi seguiva e praticava, da modesto dilettante del “torneo del sabato” nonché cronista, il gioco del calcio. Soprattutto Gigi Riva che aveva riportato l’Italia ai fasti internazionali (Campionato d’ Europa, 10 giugno 1968). Ha scritto Gianni Brera che lo soprannominò “Rombo di tuono”: “Riva è nel fiore della sua prestanza atletica; non ha un piede molto delicato, in effetti non gli serve; ma nessuno riesce a battere a volo come lui, nessuno a rovesciarsi come lui “em bycicleta”, a staffilare da terra su calcio franco, a scattare, entrare, svellere. Riva è il condottiero effettivo del Cagliari, il match-winner sicuro, talvolta il mattatore”. Mancino allo stato puro, la gamba destra gli serviva solo per correre o camminare, era una potenza con un indomito coraggio, tanto da patire due gravi infortuni con la maglia della Nazionale. Da qualche tempo, in Italia, almeno, c’è una tendenza ad esaltazioni smodate verso i personaggi del mondo dello sport, dello spettacolo e della politica. Le cerimonie religiose si trasformano in riti pagani con i partecipanti in bella vista. Per una volta, non è stato così per Gigi Riva. Solo il ricordo di un grande calciatore e, in modo particolare, di una grande persona che ha trascorso un’esistenza non semplice, anche traumatica ma sempre all’insegna della libertà. Uno dei più amati e non solo nella sua patria adottiva, la Sardegna. Alla fine degli anni Sessanta il gioco del calcio stava esplodendo nei paesi, nei villaggi e nelle contrade della penisola, i campi degli oratori sempre affollati. Proliferavano, nelle sere d’estate, i tornei notturni (da noi chi non ricorda il Palio di Borgo Palazzo?): ecco, Gigi Riva, intorno ai sedici anni, era già uno dei giocatori più ricercati e anche più pagati. Il presidente del Laveno Mombello non se lo fa scappare ma poi arriva il Legnano. L’anno dopo Arrica, dirigente del Cagliari, l’acquista dal club lilla per 37 milioni. Non ci va molto volentieri, invece non si muoverà più da Cagliari. Con i suoi gol e le sue prestazioni, insieme a tutti gli altri compagni, ha portato il Cagliari a vincere lo scudetto. Un’impresa fuori dal normale se si pensa che il titolo di campione d’Italia era appannaggio solo di Juventus, Milan e Inter. Ci voleva Gigi Riva per scardinare il monopolio nordista, tra l’altro uno di Leggiuno, provincia di Varese che disse caparbiamente no ai miliardi di lire che gli avevano offerto Agnelli, Fraizzoli e Carraro. Solo Cagliari, solo la Sardegna.
Giacomo Mayer