Il pallone gli rimase appiccicato al piede. Fece una finta, vinse un rimpallo, poi calciò un esterno vigliacco all’angolino e credo, anzi sono sicuro – mi ci giocherei quello che ho di più caro – il portiere fu tutt’altro che impeccabile. Dopo ricordo che Matteo si mise a ridere, certi ghigni non te li scordi: aveva vinto la sfida a chi ne segnava di più, e probabilmente anche la partita. Era sera. Era sera ogni volta che si giocava. A noi il minuscolo campetto sintetico di Verdello sembrava il glorioso Maracanã, o un qualsiasi altro stadio che non ci sta tutto negli occhi. Organizzavamo sfide del genere una, anche due volte a settimana, e comunque non bastavano a placare la pulsione che genera il fútbol nel sangue. Poi nel 2007 mi sono trasferito a Roma, e inevitabilmente ho dovuto cambiare giro.
Tutti quelli che praticano – anche quelli che seguono ma di più quelli che praticano – sanno di cosa parlo. Il giro di amici e di colleghi di lavoro diventa un circolo privilegiato di campioni (o bidoni), e certe anonime partitelle, dalle sfide cinque contro cinque ai tentativi organizzati su un vero campo a undici, sono più sentite di una finale di Champions. Noi tutti, mesmerizzati da questa sfera magica, così diventiamo per un breve momento, un’ora, un’ora e mezza, dei calciatori maledetti, gente che in altre vite avrebbe certamente guadagnato una poltrona di pelle tra gli déi olimpici del pallone. E invece. Invece restiamo spettatori di un gioco luminoso, ed è allora che lasciamo in eredità agli altri i nostri sogni spezzati di calciofili, aspettandoci che li realizzino. Spesso questi funamboli arrivano dal Sudamerica. Sono i malinconici brasiliani, i tignosi uruguaiani, gli argentini immortali, gli instancabili cileni, e non sempre ci soddisfano.
I perché dietro a questo strano richiamo sudamericano sono probabilmente antropologici, ma non è in questo libro che troverete le risposte. Abbiamo, io e Alessandra Giardini, preferito dare voce alle storie. “Maledetti sudamericani” (Castelvecchi, pag. 192, 16.50 euro) lo potete leggere come un libro di racconti, ma anche come un unico romanzo, un viaggio attraverso il Sudamerica e il suo calcio. E ci troverete (alcuni di) quelli che non ce l’hanno fatta, quelli che si sono persi, quelli che hanno buttato via il loro talento. Quelli che hanno rischiato di diventare un altro Maradona, o un nuovo Pelè, e invece si sono dovuti accontentare di essere soltanto un’imitazione mal riuscita, una copia carbone, o un paragone improponibile. C’è la storia di Renè Higuita, che attraversa gli anni d’oro della Colombia ma anche il suo inferno quotidiano. Quella di José Leandro Andrade, che ci porta indietro ai primi del Novecento, quando in Europa non si era mai visto un nero giocare a pallone ma in Uruguay sì. Quella di Valeriano Lopez e dei suoi gol, delle sue fughe, dei suoi peccati e delle sue pene. Il viaggio di “Maledetti sudamericani” ci porta nell’Argentina della dittatura, in una storia atroce che appena sfiora il Mondiale vinto in casa dalla squadra di Menotti.
Ci conduce in fondo a una miniera cilena, con tutto il mondo fuori e trentatrè uomini intrappolati dentro, e uno è stato un campione del fútbol, e l’uomo che lo tira fuori è stato un suo avversario. Dal Paraguay i sogni ci portano in Spagna, in Cina e vanno a infrangersi su un letto di ospedale in Indonesia. Anche la storia di Byron Moreno si frantuma, dopo essere andata a sbattere in fondo a una vita sbagliata, ancora maledetta. Dal calcio in altura dei boliviani, fuorilegge secondo la Fifa, a quello in riva al mare dei brasiliani, che chiude il viaggio con una storia paradossale, maledetta sul serio eppure tutta da ridere. E il Brasile è l’ultimo, imperdibile richiamo del viaggio nel calcio alla fine del mondo, quello che attraverso il racconto di Cesare Prandelli, ct della Nazionale e autore della postfazione, ci dà appuntamento al Mondiale che andrà in scena fra un anno, in Brasile. Nel frattempo, l’avventura grandiosa di un essere umano qualunque, o la giornata qualunque di un grande personaggio del calcio sudamericano ci sembrerà più vicino alla nostra. Vicino a quella di noi appassionati di calcio, di Sudamerica, affascinati da quella strana, maledetta incredulità.
Giorgio Burreddu

GIORGIO BURREDDU
Giorgio Burreddu è nato a Treviglio, un torrido agosto del 1983. Ha mosso i primi passi all’interno della redazione del «Nuovo Giornale di Bergamo». Dal 2007 vive a Roma. Lavora per l’agenzia di stampa «Infopress». Ha collaborato con il «Guerin Sportivo», «Linea Bianca» e il «Corriere dello Sport-Stadio».

ALESSANDRA GIARDINI
Alessandra Giardini è nata a Ravenna e vive a Bologna, dove lavora al Corriere dello Sport-Stadio. Per il suo giornale si è occupata di quasi tutti gli sport. Ha seguito da inviata tre edizioni dei Giochi Olimpici. Oggi si occupa principalmente di calcio, dalla redazione di Stadio, e quindi soprattutto di Bologna, Fiorentina, Parma e quest’anno anche Sassuolo. Ha seguito da inviata Juventus e Parma nelle coppe europee, gli Europei di Belgio-Olanda del 2000 e i Mondiali di due anni dopo in Giappone e Corea. La prima volta che ha visto una partita di calcio aveva quattro anni: suo padre, che in Romagna faceva il presidente del Villanova di Bagnacavallo, in Seconda categoria, se la portò in panchina.