Intanto una premessa strettamente necessaria, penso che il mio lavoro sia raccontare, ma soprattutto dare una chiave, quindi anche criticare. Questo al netto dell’amore che sento, io che sono stato accolto a Bergamo vent’anni fa, subito messo a parlare dell’Atalanta, una delle due donne che amo da sempre, anzi sempre e per sempre. Dopo la Lazio ho scritto a caldo quale sentissi fosse l’unico problema della Dea più forte della sua storia, quella che intatta avrebbe conquistato lo scudetto, la Coppa Italia e si sarebbe giocata fino in fondo la Champions. Dicevo che Percassi, un genio, aveva sbagliato, togliendogli il cuore, ossia il Papu, il capitano, venduto al maggior offerente, il Siviglia.
Mi avete dato tutti del coglione e ci stava. Addirittura gli atalontologi più famosi mi hanno definito un disfattista che ci gode, un milanista che fa il gioco delle grandi, non un giornalista che guarda partite su partite confrontandole, ma un furbetto, che, quando scrive, fa un po’ il bigolo, dedicandosi ai cazzi suoi.
Bene, oggi, dopo un pessimo 3-3 in casa contro la peggiore squadra dell’attuale Serie A, il Torino, e lo 0-0 in Coppa Italia contro un Napoli in crisi d’identità per via delle feroci liti interne, soprattutto quelle tra un grande mister, Gattuso, e un modesto presidente, De Laurentiis, sottoscrivo quanto detto una settimana fa.
Diversamente dai fenomeni che leggo, io ho giocato. E a questa Dea stratosferica, sul 3-0 dopo una mezzoretta a giochicchiare come sa, in una partita identica a quella mirabile della passata stagione, manca l’anima, il leader con la maglietta sudata fuori dalle braghette, i lividi sugli stinchi per fermare l’avversario, il pensiero dei tre punti continuo nella testa. Ce l’hanno squadre molto meno forti di quella nerazzurra, ce l’ha il Milan, che ha Ibra sempre in campo, ce l’ha il Verona, che ha Zaccagni a fare e a disfare, ce l’ha l’Inter, che ha Barella a perdifiato, ce l’ha la Juve con Cristiano, a trentasei anni ancora a tirare il gruppo. L’Atalanta, invece, ce l’aveva, ma lo ha lasciato andare. Si chiamava Gomez. Se oggi fosse stato sul rettangolo di gioco a inventare trame per Zapata, ora senza un appiglio, l’ombra di se stesso, se fosse stato in tribuna a fare casino, se fosse stato su instagram a caricare i compagni, oggi con lui in rosa sarebbe finita 7-0.
Ed ora insultatemi, nell’idea che dire al Toni che ha fatto una cazzata si è solo delle merde, da allontanare immediatamente dal pianeta Dea. Se ne scrivo, invece, è perché all’Atalanta ci tengo da matti, il motivo è che certi errori non ne vorrei vedere più. Perché la Dea è una grande e il sogno è la maglietta nerazzurra con lo scudetto sopra il petto. Ed è l’ultimo mio pensiero sul Papu e su Percassi. Solo a giugno ne riparlerò. Al Gasp, che adoro, il compito di trovare al più presto il sostituto, quel cuore, perché senza, nel pallone, ma pure nella vita, non si va molto lontano.
Matteo Bonfanti