Trent’anni fa era morto il calciatore, trent’anni dopo lo ha seguito l’uomo.
Il mito, quello no, non morirà. Non può morire.
Maradona ha fatto battere miliardi di cuori, in ogni angolo del globo. E ha fatto battere troppo forte il suo di cuore, sempre, vivendo tre o quattro vite in una sola.
Consumata come una candela, tra la luce emanata con il pallone ai piedi e la cera che si accumulava tra fallimenti e delusioni di vario genere.
Il cuore del più grande talento mai visto su un campo da calcio ha smesso di battere. Ma lui continuerà a far battere i cuori di miliardi di appassionati.
Perché i miti non invecchiano, i miti non muoiono.
Restano eterni. Immortali.
Diego Armando Maradona quattro settimane fa aveva toccato quota 60, inanellando tanti zeri anagrafici.
Nato il 30/10/60, ne faceva 60 nel 2020.
Troppi zeri, troppo vicini.
Un segno nefando. Il ‘Dio’ del pallone era già ricoverato da qualche giorno, anche se avvolto in un’insolita nube di mistero e riservatezza.
Non era la prima volta che la sua vita spericolata lo aveva portato al limite: era già successo negli anni scorsi, quando aveva messo su troppi chili e troppi vizi, ma ne era venuto fuori. Come era venuto fuori da depressioni, crisi varie, persino un ricovero in una clinica psichiatrica.
Tanti i bassi in una vita troppo veloce per rallentare, per non bruciarla troppo in fretta.
Il tempo forse un giorno ristabilirà una verità, anche umana, sul ragazzo che ha faticato a diventare uomo anche se era padre da 35 anni e nonno da un decennio.
Maradona è morto da ragazzo invecchiato nel fisico di un uomo con cui non ha mai trovato pace.
Per mille motivi forse indipendenti da lui.
Sempre sul palcoscenico, sempre sotto i riflettori, sempre circondato da una pressione di un popolo, quello argentino o quello napoletano, che un CR7 o il suo ‘erede’ Messi manco si sognerebbero di subire.
Una vita intera così. Ragazzino-fenomeno predestinato, già sulla bocca dei tifosi e dei giornalisti quando era un bambino di 12 anni, poi una strada verso il successo troppo vertiginosa per non oscillare, per non sbandare, per non smarrirsi dopo un’infanzia difficile in un contesto di povertà e ignoranza.
Maradona è stato unico e solo, pur avendo fratelli, mogli, figli, eserciti di pseudo amici a scortarlo.
La solitudine del numero primo, inteso come numero uno anche se sfoggiava il dieci.
La storia sul campo è nota, quella fuori pure soprattutto nel periodo d’oro a Napoli: una città ai suoi piedi, il traffico che si fermava al passaggio della sua Ferrari, il nome Diego che gli impiegati dell’anagrafe scrivevano per ogni maschio nato dal 1985 al 1990.
Un sogno. E un incubo, perché Maradona era di tutti, anche dei camorristi, dei faccendieri, dei malintenzionati.
Lo scudetto ‘88 sfumato in circostanze misteriose, la cocaina, i guai con il fisco, un figlio fuori matrimonio che ha faticato vent’anni a riconoscere.
Era solo un ragazzo quel Maradona, aveva solo 29 anni quando tra i denti sibilava quel figli ‘de puta’ ai tifosi italiani che lo fischiavano nella finale di Roma contro la Germania tifando per i crucchi.
Nell’ultima notte di Diego. La sua carriera finiva lì.
Era l’8 luglio 1990.
Contro Matthaeus che solleva la ‘sua’ coppa, quella che l’Argentina doveva bissare dopo il capolavoro messicano del 1986.
Quella sera Maradona era all’apice di una carriera che sembrava ancora lunga, almeno cinque o sei anni.
Invece il declino immediato, in quell’anno di cifre tonde: 30 anni compiuti il 30/10/1990. Troppi zeri anche lì.
Il resto è poco calcio, con il doping, le squalifiche, esperienze a singhiozzo a Siviglia o in patria.
Fino al triste epilogo dei Mondiali USA: Maradona torna con un gol da Maradona, a 33 anni e mezzo, con qualche chilo di troppo. Un controllo antidoping lo spazza via due giorni dopo tra polemiche e rabbia.
Una fine alla Ben Johnson, il velocista baro che Diego aveva ingaggiato come personal trainer.
Pensionato nel modo più umiliante, a 33 anni, crocifisso dal mondo del pallone che tanto lo aveva osannato.
Poi l’altra vita da cominciare ancora giovane.
Tra mille difficoltà, cadute, ripartenze.
Senza riuscirci davvero.
Arriverà di nuovo ai Mondiali come improbabile allenatore di una disastrata Argentina nel 2010, in un altro anno di numeri tondi, quello dei cinquanta.
Un altro fallimento, l’ultimo ad alto livello.
Poi altre crisi, problemi, guai.
Una vita piena di guai alla Vasco, certo, fino al blackout di quel cuore matto.
Il mito di Diego Armando Maradona sopravvivrà al suo cuore, a tutto. Perché i miti sono immortali…
Fabrizio Carcano