Una meravigliosa vita da arbitro. Una mattinata a chiacchierare con Mario Mazzoleni, il più famoso direttore di gara della nostra provincia, fa venire voglia di iscriversi immediatamente all’Aia e correre a comperare la famosa giacchetta nera al primo negozio sportivo, ovviamente per scendere subito in campo. Passione come se piovesse in ogni sua parola, una serie infinita di ricordi indimenticabili negli stadi di tutta Italia e, soprattutto, un’analisi lucida e intelligente su come in questi anni è cambiato il mestiere più difficile del pallone.
Intanto la sua storia, bellissima, gli inizi all’oratorio di Colognola, da bambino, cartellini fatti in casa e l’immancabile fischietto per dirigere nel miglior modo possibile le sfide tra gli amici di sempre. “Arbitrare mi ha subito entusiasmato, fin da piccolissimo, le volte che mi capitava di vedere il calcio in televisione – racconta Mario -. Mi divertiva un sacco. Va detto che erano altri tempi, io sono nato nel 1971, e, come ogni persona della ma generazione, la mia infanzia l’ho passata interamente all’oratorio. Non c’erano la playstation o i cellulari, nei nostri pomeriggi ci ritrovavamo a giocare a pallone fino a sera. Così una volta mi sono proposto ai bambini che erano li con me, a dirigere la loro partitella. E da lì ho iniziato”.

Dal 1987 le prime direzioni vere e proprie nelle gare dei settori giovanili della nostra provincia, Mario è bravo bravo, ha soprattutto quello che manca a chi arbitra oggi in Serie A, il carattere. “Penso sia l’elemento più importante. Un buon arbitro deve avere carisma, tenere in pugno la partita con la sua personalità, fare accettare in modo fermo le proprie decisioni ai giocatori, questo per evitare che gli animi inizino a scaldarsi”.

Immediata una piccola, ma doverosa parentesi, con una domanda sul presente: com’è lo stato di salute attuale della nostra classe arbitrale? “Da un lato le nuove tecnologie hanno sicuramente migliorato il calcio, grazie all’introduzione di una serie di strumenti che evitano errori macroscopici come, ad esempio, il gol non assegnato a Muntari nel famoso Milan-Juventus. Ma ha anche abbassato la qualità dei nostri direttori di gara che il Var porta, in qualche modo, a una sorta di deresponsabilizzazione. Gli arbitri di adesso appaiono fragili e incappano in sbagli clamorosi, il mancato vantaggio concesso ai rossoneri da parte di Serra nel match di metà gennaio contro lo Spezia si deve a questo, il fischietto in questione evita di prendere una decisione forte e sanziona immediatamente il fallo, senza la necessaria interpretazione, fermando, di fatto, una chiara occasione da gol. Penso che il Var abbia cambiato totalmente il pallone, rendendolo uno sport molto televisivo, meno da stadio. Dal divano di casa il tifoso rivede per interi minuti l’azione che porta all’assegnazione di un rigore, il Var è diventato una parte importante dello spettacolo, ma che ha fatto perdere per strada il fascino della disciplina più amata al mondo, quello di trovarsi tutti insieme in uno stadio, nel luogo dell’evento proprio mentre sta accadendo”.

Che dire? Riflessione che sottoscriviamo in toto. Ma torniamo al passato, ovviamente restando sempre con uno sguardo al presente, concentrandoci sulla scalata fatta dal direttore di gara bergamasco. “Ho fatto la trafila, come tutti, esordienti, giovanissimi, allievi, poi la Terza categoria, ogni domenica una direzione. E sono arrivato in Serie C nella stagione 1998-1999. Era uno spettacolo, stadi pieni, soprattutto nel sud Italia, tifo dalla grande passione, a volte esagerato. E’ uno dei periodi della mia vita che ricordo più volentieri, arbitrare mi piaceva tantissimo, mi elettrizzava. Penso che quello sia stato il momento più bello della mia carriera. E si stava aprendo un decennio di grandi cambiamenti…”.

Corre il 1999. “La svolta per la nostra classe arbitrale arriva in quell’anno con l’avvento del designatore Paolo Bergamo. Con lui al comando avviene il passaggio degli arbitri al professionismo. Non è più una passione del fine settimana ma un lavoro vero e proprio, con allenamenti quotidiani ogni mattina, il mio gruppo col professor Vasamì, i pomeriggi con le immancabili riunioni tecniche, a vedere e ad analizzare le direzioni dei big match giocati nel fine settimana precedente, e i ritiri dal giovedì sera. In quel momento la scuola italiana diventa di gran lunga la migliore al mondo, grazie anche a un talento straordinario come l’internazionale Pierluigi Collina. Ai nostri raduni vengono fischietti importanti, direttori di gara stranieri, penso allo svizzero Busacca o al greco Vassaras, ad allenarsi insieme a noi per cercare di carpire i nostri segreti”.

Ma torniamo a Mario Mazzoleni, talento bergamasco che dalla C passa prima in B e poi, un attimo dopo, in A. “I miei anni in terza serie non passano inosservati anche perché mi assegnano il Guerin d’Oro come miglior arbitro della categoria. Pure nei campi più caldi d’Italia, penso a una domenica a Torre del Greco, dove prima del mio fischio d’inizio i tifosi si erano messi a pisciare addosso ai miei due guardalinee, non perdo mai la calma, cosa che fa salire la stima nei miei confronti da parte dei vertici arbitrali. Altro salto e nel 2003-2004 sono in B, poi il sogno di una vita, l’esordio nella massima serie italiana, l’apice di una carriera”.

Luci a San Siro… “L’emozione incredibile provata sentendo l’inno dell’Inter, uno dei momenti che porterò sempre nel mio cuore. Ricordo quella manciata di secondi, le immagini che mi passavano, mille gare dirette, da quelle all’oratorio di Colognola a Taranto, Catania, Livorno, Pescara, Cagliari, Verona e Torino. Si calcola che su 45mila arbitri che iniziano, ne arrivano in Serie A appena una trentina. E’ un ruolo difficilissimo, ma anche immensamente formativo, e per questo penso che sia il più affascinante che c’è su un campo di pallone. Sul rettangolo di gioco un arbitro è solo contro tutti, bisogna avere coraggio, determinazione, sicurezza nei propri mezzi, tutte qualità che aiutano molto anche nella vita, rendendoti più forte”. Frasi da far leggere ai mille e passa ragazzi di Bergamo, che stanno cercando la loro strada nello sport.

Qualche curiosità, vista la fortuna di avere di fronte un arbitro che ha fatto la storia. Parliamo di sudditanza psicologica. Esiste? “Certo che sì… Ovviamente è qualcosa di implicito, ma qualsiasi arbitro sta attentissimo a evitare di sbagliare quando dirige il match di una grande. Milan, Inter e Juventus possono infatti far decollare una carriera oppure stroncarla sul nascere. E’ naturale essere portati ad avere un occhio di riguardo quando si fischia al Meazza o allo Stadium di Torino”.

I rapporti personali tra i direttori di gara e i giocatori e gli allenatori. “Quando si arbitra non possono esserci ed è qualcosa di giusto e di sacrosanto, ci fossero potrebbero infatti condizionare il nostro lavoro, si veda la ferita ancora aperta legata allo scandalo di Calciopoli. Finita la carriera, si è invece liberi di frequentare chi si vuole. Personalmente ho grande stima e affetto per Max Allegri, Simone Inzaghi e Antonio Conte, tre persone molto in gamba, che mi capita di incontrare. Ai tempi non potevo non farmi una risata quando mi succedeva di arbitrare le squadre di Carletto Mazzone, un uomo dalla battuta sempre pronta, un grande. Ma il nostro rapporto si limitava a quello, uno scambio di battute allegre e divertenti”.

L’arbitro a cui ti ispiravi. “Senza dubbio l’internazionale Vautrot, francese. Autoritario e spigoloso. Con lui in campo i calciatori evitavano anche la minima protesta. Comandava solo lui, poi aveva capacità straordinarie, era un direttore di gara che sbagliava pochissimo, decidendo in modo velocissimo e bene su qualsiasi episodio dubbio che accadeva in area”.

Il tuo calcio e quello di adesso, come è cambiato? “Mi ricollego alle parole dette prima riguardo alla tecnologia, si è persa per strada la poesia. L’evoluzione verso la spettacolarizzazione legata ai diritti tv ha portato sia i calciatori che gli arbitri all’eccesso del dinamismo. E’ un calcio che va a mille all’ora, perdendo però la sua poesia. Mi chiedo se un calciatore come Maradona, il più forte di tutti, giocherebbe nel Napoli di oggi? Ora è tutto legato alla velocità, con giocatori che non sembrano umani, ma paiono dei robot, allenatissimi, pazzeschi, simili a quelli delle sfide alla play station. In questa foga, i colpi di pura classe spariscono dal gioco. In un certo senso è così anche per la classe arbitrale. Ad eccezione di Orsato, il solo che dimostra di avere grande carisma, gli altri sono atleti straordinari, preparatissimi dal punto di vista fisico, ma senza il carattere che avevamo noi”.

Ringraziamo il nostro arbitro per averci regalato il suo prezioso tempo e lo lasciamo al suo lavoro, che è qualcosa di bellissimo. Il nostro fischietto è infatti impegnato anima e corpo nella sua galleria. Si chiama Art Events ed è a Bergamo, in Largo Belotti. Il consiglio a voi lettori è quello di andare a farvi un giro, scoprirete quadri meravigliosi, opere incredibili e l’anima artistica e sensibile di quello che una ventina d’anni fa era considerato il direttore di gara italiano dal carattere di ferro.

Matteo Bonfanti