di Matteo Bonfanti
C’è stato un giorno brutto, era sera, e forse era martedì o mercoledì o giovedì, insomma non ricordo bene nonostante abbia l’impressione sia passato pochino, una settimana, magari qualcosina di più. Ero a casa, immobile davanti a un film per teenager americani, il telefono spento, le imposte chiuse, i posacenere pieni, io e il resto del mio appartamento completamente bloccati. E ho avuto l’impressione di essere stato abbandonato. Non dagli altri, da me stesso. Sono stato così per un’ora, in quell’angoscia che provavo da bambino quando mia mamma era a scuola, mia sorella era in piazza con le sue amiche e io non sapevo quando sarebbero tornate e le aspettavo seduto in un angolo, sentendomi terribilmente solo, mangiandomi le unghie. Mi sono addormentato sul divano, mi sono svegliato e avevo ancora addosso quell’ovo sodo, lo stesso di Virzì, che non va né su né giù.
Ho ragionato: mi sento perso, perduto, quindi devo ritrovarmi. Allora ho fatto la lista di quello che ho smarrito negli anni: la mia macchina, che stava da giorni da Liborio, il meccanico di famiglia, i miei due bambini, che è un mese che vedo poco e male e mai ad abbracciarci sul lettone che è il nostro posto, i miei amici, quelli d’infanzia, che stanno quasi tutti a Lecco e che ci s’intende con uno sguardo, quelli di Bergamo, perennemente intenti a proteggermi, mia madre, mio padre, mia sorella, che sono le mie radici, il mio fiume che è l’Adda e che sento come il luogo dell’anima mia, l’unico che mi fa tornare il sorriso cullandomi con le parole che mi ha insegnato da ragazzo.  Poi la musica che gira intorno, le canzoni che scrivevo e che ora non faccio più, gli articoli in cui sono onesto, i silenzi in montagna, l’allegria, Macondo, Garcia Marquez, Pablo Neruda, Che Guevara, Fidel, la rivoluzione, Marco e Monica che sono i miei due splendidi colleghi, i giorni senza impegni, senza pretese e senza desideri, correre e saltare, che non ho mai capito perché, ma mi succede che mi fanno un sacco ridere. In ultimo il mio amore, che adesso è lontano e arrabbiato, scomparso il giorno che ha sentito che nel mio cuore il deserto dell’egoismo e del narcisismo  si era mangiato persino l’ultima fettina di quello che un tempo era un rigoglioso prato di margherite, di idee e di progetti da realizzare insieme.
E sono ripartito. E la mia caccia al tesoro è iniziata come quelle che facevamo a Primolo, d’estate, in Valtellina coi frati: prima la squadra dei Coccodrilli trova le cose più semplici, via via quelle difficili, fino al super premio appena scende la notte, che mi ricordo che era calda e aveva centinaia di stelle, o forse era buia, fredda e tempestosa, ma la illuminavano i nostri sorrisi e andava benissimo così. Ho recuperato la mia macchina, la Pandona Aranciona, dal meccanico, e sono andato a Brivio a bermi una birra, in solitaria, lontano dagli occhi e dal cuore, là, in quel punto dove finiscono le case e ogni cosa è verde o azzurra. Di notte ho rincorso i miei amici bergamaschi, i (teneri) maledetti, Greta, Ermal, Pablo ed Erica, e non per la terribile paura della solitudine che non mi abbandona mai, ma perché è bellissimo stare con loro a ragionarcela sull’amore e sui suoi misteri. Il giorno dopo ho lavorato e c’era Marco, tornato dalla Cina, e mi sono dedicato alla nostra inesauribile amicizia, io e lui al Blu Puro, un paio di bianchi fermi a testa, aspettando la sera in quel viaggio che sono da sempre le nostre parole. Fanno bene, hanno  in sottofondo  quella meravigliosa canzone che dice: “Volando leggero in un mare di guai, non cambieremo mai”. Di sera sono andato a Valgreghentino da mia mamma e c’erano i miei figli, e li ho guardati, finalmente, ed erano ormai grandi, due ragazzi forti e coraggiosi, terribilmente simpatici, e gli ho chiesto di tornare a saltarmi addosso sul lettone che avevo bisogno di sentire la consistenza dei loro corpi, identici al mio. E mi hanno accontentato, ridendo mentre ci faceva compagnia una luna gigante, grande come un pallone. Quando si sono addormentati, non avevo sonno, volevo leggere e ho trovato per caso una vecchia biografia di Lennon, un uomo eccezionale, che amo per gli innumerevoli capolavori che ci ha regalato, coi Beatles o con Yoko, con le sue canzoni e con le sue battaglie, indimenticabile quella per un mondo di amore e pace, la stessa che sento muoversi nelle mie fragili vene.
Ritrovando John, la colonna sonora della mia vita, ho sentito forte che mi stavo riavvicinando a tutto il resto. C’erano i ricordi. C’erano cinque ragazzini, Teti alla chitarra, Dritto alla batteria, Vito al basso, Nic alle tastiere, mentre io canto, male, all’oratorio di Bartesate e nessuno di noi ha ancora la barba, ma parliamo dei Beatles come se li avessimo conosciuti di persona. C’era di nuovo il mio amore, a urlare con me Give Peace a Chance mentre andiamo a Barcellona su una Vespa scassata, e muoio dal ridere perché la mia ragazza ha una paura fottuta di cadere e quindi mi sta addosso a più non posso. C’erano i miei bambini, di nuovo piccolissimi, da cullare con Beatiful Boy, in loop perché parla di loro due a un anno e mezzo quando erano manine bellissime, sorrisi soffici, lunghissimi abbracci, passi incerti e fiduciosi, perfetti, arcobaleni, prati interminabili in minuscoli parchi cittadini, occhi e sorrisi all’improvviso. C’erano mio padre e mia madre, la nostra casetta al numero dieci di via Boccaccio, una strada privata uguale uguale a Strawberry fields. C’era mia sorella, che per me è Don’t let me down, non abbandonarmi, Chiara, almeno tu.
Non c’è un finale né un insegnamento, ed è pure difficilissimo trovare un titolo a questo articolo. E’ solo il mio momento, niente di che, un attimo in cui tutto è possibile e niente è reale, che manco so se è una citazione che c’entra qualcosa, ma mi piace metterla perché è una frase di John.

La foto è di Caterina Pogna, artista bergamasca parecchio simpatica, un’amica, che ieri sera mi ha promesso in modo anche abbastanza solenne di immortalare i miei ritrovamenti