Va tutto bene, c’è il sole, il covid sta finendo e sento la primavera tutta intorno che è il primo passo verso un’estate indimenticabile, la prima di nuovo liberi, uguali a come stavamo ieri. E poi in questo momento sono in redazione, che è il mio paradiso in terra, per di più rilassatissimo, impegnato in un lavoro grafico ultraripetitivo, da ebete, che più facile non si può, perfetto per i tipografi senza qualità e senza passione come me.
Ho solo questa cosa, addosso da qualche ora, da scrivere per lasciarla andare per i fatti suoi, quella che vorrei che il tempo si fermasse, non tanto, giusto una trentina d’anni, che volano in un attimo, ma che sono anche belli lunghetti. Ovviamente, una volta passati, vediamo, decidiamo tutti insieme se far ripartire le lancette con un bel referendum popolare.
Lo sogno per mia mamma, che invecchia, va detto poco poco, ma un pochino sì, e che io vorrei restasse così come è adesso, per sempre.
Ieri sera sono partito da Bergamo e pioveva, fuori in modo leggero, a dirotto nel mio cuore. Sono arrivato da lei senza che se lo aspettasse, aprendo la porta nel mio solito modo, battute a raffica, gag e casino a oltranza. E si è immediatamente accorta che fingevo, che avevo un sacco di polvere nell’anima e due sassi belli grossi, uno nelle scarpe, l’altro che mi ballava tra l’universo e il cuore. E mi ha detto “vieni qui, bellino mio”. E mi ha stretto tutto, dieci minuti che parevano sei secondi, ma che valevano per sei ore, scaldandomi come al fuoco di un camino, facendomi d’improvviso ritornare il sole. Solo una mamma con suo figlio. Solo la Vale con me.
Ed era così bello che ho voluto celebrare l’attimo, fumandomi una sigaretta. E siamo usciti fuori e d’improvviso c’era l’arcobaleno e ridevamo come matti, perché è vero che l’arcobaleno è un sacco poetico, ma fa anche un botto ridere perché ricorda le favole al telefono di Gianni Rodari.
Un’ora dopo ero in strada, sulla via del ritorno, perché all’amore, quando è forte forte, vero e genuino, basta poco, appena un battito di ciglia. Ed ero commosso e manco era colpa della musica alla radio, che avevo su Ligabue che urlava contro il cielo, mica che guardava negli occhi la sua mamma. E mi sono fermato sull’Adda a far saltare le mie solite quattro pietre, pregando un po’ di dio a caso, soprattutto Gesù e Buddha, i miei preferiti perché sono i più teneri, quelli di viversela in pace persino in croce, anche durante la tempesta. Parlavo a tutti e due, li immaginavo accanto. Gli chiedevo il mio regalo, che domani mattina presto si mettano d’impegno e che facciano in modo che mia madre non diventi mai una vecchina rimbambita, ma sia tra trent’anni così come è ora, mani, braccia e gambe, sorrisi, tenerezza, allegria, abbracci e ricordi, sogni grandi, forti e controvento, pensieri, parole soprattutto, le sue, meravigliose perché rosa, azzurre e celesti.
Insomma gli ho chiesto che la Vale continui a essere, sempre e per sempre, il mio arcobaleno, la felicità e la speranza dell’anima, come ieri, come ogni volta nella vita mia.
Matteo Bonfanti
La foto è quella del mio miracolino, Valeria, la mia mamma, che fa spuntare l’arcobaleno fuori e dentro me