In quel tempo brevissimo, ma pure così importante, che ancora lo sento sempre addosso perché è la mia adolescenza, partivo col mio Zip, parcheggiavo sulla salita di Galbiate e a piedi prendevo la via dei campi. Andavo a Consonno, il paese fantasma che sta proprio sopra la mia città, un posto delle favole, ma pure di qualsiasi incubo intorno ai nostri cuori.
Avevo diciassette anni, scappavo dalle croci celtiche e dalle svastiche della nuova destra così presente allora a Lecco, tra il Fronte della Gioventù a San Giovanni e le tante persone di Comunione e Liberazione che abitavano nelle ville tra Valmadrera e Civate, ma fuggivo pure dalle falci e dai martelli che disegnavo su ogni panchina del Parco Belvedere. Ma non era solo la politica, che da poco mi era entrata dentro, fortissima e senza ritorno in me come in tanti altri, ognuno di noi nell’immenso bisogno che in Italia uno valesse uno finalmente per via del talento, insomma che non fossero i soldi in tasca o le proprietà del proprio babbo a decidere il sentiero del futuro di ognuno di noi. Ed eravamo belli e rivoluzionari, stupidi, già pronti per il massacro che ci avrebbero organizzato a Genova.
Ma se andavo lontano lontano dal mondo, dove non c’era nessuno, manco un’ombra, con la musica di Tenco nel mio walkman, era pure per amore, che ero rosso e riccio, con un sacco di poesia fino in fondo, perso e confuso sempre e per sempre, spesso amato da almeno tre donne per via di quella vicenda femminile che è innamorarsi di chi è stanco e perduto, ma allegro mentre va via di casa, da salvare e da proteggere mentre si mette nei guai. Ed erano fate, allora come ora, diverse, ma uguali, e io non sapevo mai chi scegliere per finire il mio giorno. E allora avevo bisogno di respirare.
Va beh, solo per dire che è una questione di cellule, perché mio figlio Vinicio, il mio primo, quindici anni, che rispetto a me sta in un altro mondo, senza croci celtiche né svastiche, privo della sana ribellione della mia generazione, anche perché noi siamo genitori sempre appresso, presenti, oggi pomeriggio non sapevamo dove fosse. Aveva persino il cellulare staccato. Poi è tornato, tranquillo e sicuro ci ha spiegato che stava in riva al fosso, nel suo paese fantasma, che per lui che è di Bergamo è il tetto dell’ex Reggiani, una fabbrica da anni abbandonata. E ho preso un secondo per sentirmi uguale a lui e sono andato a vederla. Mi sono fermato a respirare, ho fumato una sigaretta, felice di essere lì, fermo e nella solitudine dei giorni. E l’ho capito. Era come me. Era a Consonno.
Matteo Bonfanti