di Matteo Bonfanti
Torno a casa ed è tardi, quasi notte, le otto passate da un pezzo. E ho un sacco di sassi nelle scarpe e sono pieno di polvere sul cuore e apro la porta e ci sono Vinicio e Zeno, i miei figli, tutti e due bellissimi, rilassati sul divano dopo i loro piccoli-grandi impegni quotidiani. Zen, che ha otto anni ed è di quei tipi dolci come il miele, si alza e mi viene incontro. Mi abbraccia, lo stringo, gli strizzo la pancia, gli faccio il solletico, cerca di staccarsi, ride, così per un’ora, ballando la musica reggae, che da tempo ci sentiamo entrambi i nuovi Bob Marley e Peter Tosh. Siamo come sempre, siamo noi, protagonisti al nostro improvvisato lunapark: la sala s’illumina del calore degli sguardi, le mie braccia forti diventano autoscontri, la mia schiena una meravigliosa macchinina delle montagne russe. E tutto è perfetto, è come lo vorrei.
Vinicio va in quinta elementare. Lo vado a prendere a scuola tre giorni la settimana, quando suona la campanella, alle quattro e mezza. Da una settimana non gli do più la mano. E’ grande e martedì scorso me l’ha tolta, ci siamo guardati complici, ci siamo intesi, mi ha detto tra i pensieri “papà, non è più il caso”. All’improvviso ho sentito gli occhi gonfi per via delle lacrime, che ho capito che desideravo tantissimo fosse ancora piccino picciò, in quel pomeriggio ormai lontano lontano nel mondo, io e lui a prendere il sole di maggio nel cortile della casa del nonno Franco, il mio Vini che non ci pensa due volte e parte, fa i suoi primi dieci passi e sono splendidi perché terribilmente insicuri e io prego il mio personale dio che il mio pistolino non cada e la sua mano non molla mai la mia. Credevo sarebbe stato per sempre, tutto qui.
Ieri. Sono le dieci e un quarto, pipì, denti e pigiama e siamo nel lettone, noi tre, ognuno col suo libro, io ho tra le mani l’ultimo di Saviano, Zen “Il diario di una schiappa”, Vini “Due gemelli giornalisti”, che è da grandi, scritto piccolo e senza disegni. E nessuno di noi legge perché è troppo bello trovarci accanto un attimo prima di dormire, i piedi che si toccano, stretti che più stretti non si può, nell’idea di essere in barca, sull’arca di Noè: io mi giro e i miei due ragazzi fanno lo stesso, a destra, a sinistra, ancora a destra, di nuovo a sinistra. E parliamo fitti come si fa tra uomini, Vinicio mi dice: “Papà, mi piacerebbe andare a scuola da solo”. Gli dico: “Sì, è il tempo”. E ancora vado indietro, percorro la strada dei nostri ricordi, che è un sentiero di campagna che ha margherite in ogni dove, e lo stringo dolcemente, un’altra volta, nell’identico modo di allora, quando passavo le mie notti bianche a cullarlo. Siamo abbracciati, mi accorgo che non voglio che vada via dal nido che io e sua mamma gli abbiamo costruito con l’immensa cura dei gesti e delle parole.
Dice la radio che in Italia non si fanno più figli, e ormai la media è di 1,33 a testa, la più bassa in Europa, forse nel mondo. E il mio consiglio a chi mi legge è di farli perché io, se fossi stato ricco, ora ne avrei cinque tanto è un’avventura esaltante. Che non sono un giornalista né uno scrittore, non sono un calciatore e neppure un cantautore. Sono solo un padre.

Nella foto Vinicio e Zeno