di Matteo Bonfanti
Sembra strano anche a me eppure c’è stato un tempo che ero piccolino. E mi torna in mente sempre di più e un po’ mi spaventa, ma riesce anche a cullarmi. Soprattutto mi racconta dei miei figli, quello che sentono nel loro forte e fragile cuore, in un interminabile gioco degli specchi che mi fa sperare di essere un buon padre, almeno come il mio che mi ha insegnato il calcio, la passione che mi accompagna ininterrottamente da quando avevo sei anni. E che è stato un discorso solo tra me e lui per il primo ventennio della mia vita.
Tanto fanno le case: l’appartamento, l’arredamento, il cortile. Da noi c’era tutto, a cominciare da un corridoio lungo e stretto, perfetto per gli uno contro uno con la palla di spugna. Vinceva sempre mio papà perché io da piccolo ero grande e preferivo perdere. Vedevo quell’uomo così solo e così vinto e pensavo fosse giusto dargli qualche soddisfazione. Anche perché con mia mamma le cose non andavano bene da un pezzo, il suo Milan era in Serie B e il Movimento Politico dei Lavoratori era confluito in Democrazia Proletaria che ai suoi occhi era di destra. Insomma quell’uomo aveva già i suoi dolori. E quando le nostre partite finivano a suo favore, mi sembrava felice. E io ero contento. Così ora, amo la sconfitta, mi fa stare in pace con gli altri e i vincenti non mi piacciono. Non parlo solo dei calciatori, ma anche dei politici e degli imprenditori. Non tutti, per fortuna, ma una grande parte degli uomini di successo che vedo in televisione, spesso, nascondono qualcosa di brutto in fondo all’animo. E poi gli manca la poesia per ridere di sé stessi e non sorridono quasi mai.
Oggi accompagno mio figlio Vinicio al suo primo allenamento: iscritto alla scuola calcio dell’Excelsior. Conosco i dirigenti, Ottavio Rota e Ildo Serantoni, due grandi persone che su molte cose del mondo la pensano come me, invece non ho mai parlato con mister Gianpaolo Rossi. Vorrei che fosse uno di noi e che insegnasse al mio bambino a perdere col sorriso sulle labbra e a vincere senza stravincere perché un 20-0 ci fa diventare arroganti, sprezzanti e volgari, uomini da poco, senza universo e senza cuore.
Torno a mio papà, alle nostre domeniche di quando giocavo. Me lo rivedo sulla tribunetta, manco coperta, a prendere freddo e pioggia mentre suo figlio, nel frattempo un ragazzo, nel primo tempo non tocca un pallone che sia uno perché non è un fenomeno, ha fatto le cinque di mattina e ha un mal di testa che gli prende la mascella, l’intera dentatura e parte della spalla destra. L’arbitro fischia il riposo e mio babbo scende fino alla recinzione per parlare con me. E mi dice “bravo, ma dovresti cercare più la porta” e io lo guardo e mi chiedo se non mi abbia scambiato per quello che gioca sull’altra fascia e ha già fatto tre gol. E d’improvviso mi passano i dolori e nella ripresa entro nel vivo del gioco e mi diverto perché c’è lui che mi vuole bene a prescindere dal fatto che io sia un campione o la più pippa della squadra.
Ecco: io, con Vinicio che inizia il calcio, sogno di essere quel padre lì. Tranquillo, che non grida in tribuna, che non insulta gli avversari né l’arbitro. Anzi fa finta di essere lì per caso, ma è presente, tantissimo, e trova l’attimo giusto per dirmi che è dalla mia parte, sempre e per sempre, che è poi, da quanto ho capito fin qui, essere dei buoni genitori.

(nella foto Zeno e Vinicio Bonfanti, due futuri calciatori)