Mercoledì  scorso sono partito per un breve viaggio di lavoro in compagnia  del  mio vecchio collega Ferdinando  e di mio figlio diciassettenne, insieme al  quale in questi giorni sto ragionando  sul suo rendimento scolastico; una di quelle discussioni che in passato hanno visto anche me sul banco degli imputati. Durante il mini tour, e  grazie alla mia  esperienza in materia di trasgressione, ho tentato di insegnare a mio figlio l’arte  del “saper aspettare”. Non è mancata neppure l’occasione di parlare di musica. Io apprezzo tutti i generi musicali e lui ascolta una roba che in “tutti i generi musicali” neppure trova posto, ma non certo per colpa mia. Nel  pomeriggio del primo giorno eravamo a sud di Pescara, io e Ferdinando più rilassati, dopo aver visitato il cliente e mio figlio stanco  per averci visti lavorare. Era uno di quei momenti che “non ci sto ad invecchiare così” e decido allora di non tornare subito verso nord, ma di deviare su Roma, dove proprio quella sera era in programma  il concerto degli Area. “Roma? Gli Area?”: il ragazzo, odorando aria di fregatura, cercava senza successo di dissuadermi, certo com’era che  una tale deviazione avrebbe ritardato il suo rientro in città, dove normalmente  si diverte con gli amici  come se fosse sempre l’ultimo dell’anno.
Finalmente prendiamo posto in una bella sala affollata e  dall’acustica eccellente. Disinformato, e forse un po’ prevenuto, mi sarei aspettato  di partecipare ad un evento taggato: quarantesimo anniversario, cavalli di battaglia, qualche brano inedito e vecchi estimatori. Niente di tutto questo.
Comincia Paolo Tofani che, dopo aver fallito un primo tentativo con un lungo discorso  introduttivo, riesce perfettamente  ad incantare con un pezzo, fatto di effetti e chitarra, tanto difficile da descrivere quanto bello da ascoltare. Una sorpresa piacevolissima che mi ha tranquillizzato: la buona sperimentazione, almeno nella musica, esiste ancora.
Lo spettacolo continua per un paio d’ore riservando altre sorprese. Sul palco salgono uno per uno, per poi alternarsi o suonare insieme, tutti i componenti del gruppo, secondo un copione  che la mia presunzione vuole sia stato studiato nei dettagli  da Fariselli. Il risultato è che lo spettatore si sente preso per mano e accompagnato in un fantastico percorso dove nessun pezzo ricorda quello precedente, un succedersi  di suoni che lo porta nel sogno, come nel caso del pezzo dedicato a Demetrio, oppure sulla terra come quando, suonando un mazzo di chiavi, è costretto a riflettere sulla questione palestinese. Qualche pezzo jazz e  anche un grande  assolo, tutto cuore e sana tecnica, di Ares Tavolazzi. Solo  musica strumentale, interrotta unicamente  da Maria Pia De Vito che appare, come per magia, per  commuovere tutti  con la sua straordinaria interpretazione di Cometa Rossa. Un  giudizio sul batterista Walter Paoli l’ha dato il mio giovane figlio, dicendomi: “Ci sta!”. Che, detto dall’adolescente che non vuol regalare al genitore  le proprie impressioni, significa: “E’ forte!”.
Non una mera riproposizione di  vecchi brani, ma uno spettacolo nuovo, fresco, sicuramente frutto di un appassionato lavoro; vecchio forse, ma dico forse, solo nel nome del gruppo… E, crepi l’avarizia, aggiungo anche appassionante, se mi concedete questo termine.
L’amico Ferdinando, uomo sacrificato sull’altare della musica classica, ha lasciato l’auditorium felice di aver visto volare due ore ricche di sensazioni. Per sapere cosa rimarrà di  questa serata  nel cuore di mio figlio, bisognerà invece attendere qualche tempo.
E per quel che riguarda me?  Tornando a casa  mi è venuto semplicemente da pensare  che  chi non ama  veder morire un  mondo che insegue i soliti modelli, dovrebbe  andare a sentire i “nuovi”  Area.
Evro Carosi