di Matteo Bonfanti
C’è questa cosa che mi è accaduta ieri sera e che mi porto dietro più o meno da un giorno. Mio figlio Zeno, che è un meraviglioso fiore di campo, ha fatto il primo allenamento con l’Ordival. L’ho portato all’oratorio di San Colombano ed era l’immagine della felicità, quella grande e grossa che si ha a otto anni appena compiuti. In viaggio sorrideva e mi ripeteva: “Babbo, vado a giocare a pallone insieme ai miei amici, gli allenamenti sono il martedì e il giovedì, proprio quando ci vai tu. E se divento bravo, l’anno prossimo veniamo a Orio con te”. Negli spogliatoi l’ho vestito di tutto punto, con la divisa dell’Excelsior ereditata da suo fratello Vinicio, poi gli ho dato un bacio. Lui è sceso in campo e per me è finita lì: il mister mi ha detto di tornare a prenderlo a un quarto alle sette e io sono scappato via perché lo sport è un’esperienza da vivere senza genitori, che sono dei rompiballe, zeppi di pretese, insomma ingombranti. E io non voglio essere il lupo delle favole dei miei due bambini.
Alle sei e mezza era successo un discreto casino. Zeno, che prima di ieri non aveva mai tirato neppure un calcio al pallone in vita sua, era stato immediatamente retrocesso dai pulcini 2008 alla scuola calcio, era stato preso in giro da tutti, molto perché schiappa, un po’ per la divisa dell’Excelsior, aveva finito l’allenamento mezz’ora prima del previsto ed era restato parecchio tempo al freddo, solo soletto, su una panchina sgangherata. Era nella depressione nera e senza finestre di quando si è piccoli e s’ignorano le capacità terapeutiche dei primi dischi di Bob Marley e Peter Tosh o di due Tennents gelate con un socio fidato alle cinque del pomeriggio. Zen aveva il dito in bocca e il cuore ghiacciato. A scongelarlo sua mamma, l’unica a cui riesce ogni volta questa magia, bastano un paio di abbracci di quelli giusti. “Mami, io al pallone non ci vado più. Non mi piace”. “Ok, troverai qualcosa di meglio”.
Raramente intervengo nell’educazione dei miei figli, torno dalla redazione verso le dieci, li vedo nel lettone e gli racconto una vita intrippante che sono venuto a sapere per interesse o per lavoro. Maradona, Kurt Cobain, Janis Joplin, Jim Morrison, David Bowie, Mick Jagger, Ronaldo, Cristiano Ronaldo, Karl Marx, Tebaldo Bigliardi che è il mio idolo, Mario Balotelli, Andrea Foresti che è il mister fighissimo della Gavarnese, Alberto Bendoricchio che è un grande, Giorgio Pesenti che è il bomberone della Tritium, Michele Ravasio che è il re della Pba, Andrea Savarino che è il principe della Virtus Petosino, Evro Carosi che è il chitarrista migliore del mondo, Gigi Foppa che è un genio, Frank Kessié che è un altro genio, Claudio Marchisio che è un bel tipo, Olivo Foglieni che è l’imprenditore delle meraviglie, Greta Bergamelli, la mia migliore amica: a Vinicio e Zeno faccio al volo delle piccole biografie per farli addormentare. A loro piace, me lo chiedono, a me pure, insomma è il nostro momento sacro, il viaggio delle parole che ci girano intorno.
Non gli parlo mai di me. L’ho fatto ieri. Di me e di Andrea Belotti, il centravanti del Toro e della Nazionale, due che in comune hanno l’impegno, io nel giornalismo, il Gallo nel pallone, e che sono arrivati (con fatica) al loro sogno. Ho detto a Vini e Zen quello che penso, il fondamento dei miei giorni: il talento è una baggianata, un’invenzione romantica di quella colossale sfiga che è la narrazione sessantottina. Si arriva dappertutto, ne sono convinto, ma con l’applicazione. Son cazzate persino che uno sia portato. Al Liceo scrivevo come un cane, che io stesso non riuscivo ad arrivare alla terza riga senza avere dei forti conati di vomito, dopo diciottomila articoli c’è della gente che mi ferma per strada per dirmi che il mio ultimo pezzo era bellissimo. Sono amici, so che esagerano, ma resta il fatto che sono decente, leggibile. Tra altri ventimila pezzi sarò piacevolissimo. Così Belotti, che era il più scarso di tutti e manco lo facevano stare in panchina, proprio come Zeno, si è messo ad allenarsi come un pazzo ed ora è il giovane più interessante della Serie A italiana, per certi versi un fuoriclasse. E ha realizzato il suo desiderio, quello di non far più lavorare sua mamma, un’operaia tessile.
Se giochi a pallone per dieci ore al giorno, in salotto, a scuola, al campo, per strada, nel pollaio, diventi Belotti; se canti per dieci anni ogni pomeriggio, sul divano, in Vespa, sulla Pandona, in ufficio, arrivi a fare le prodezze vocali di Freddy Mercury; se passi tutte le notti della tua esistenza a scrivere nella completa solitudine e concentrazione, finisce che fai dei libri stupendi, meglio di quelli apparentemente inarrivabili di Garcia Marquez. Così con la chitarra, strumento su cui Jimi Hendrix si è completamente rovinato per due decenni, o nell’arte figurativa, dove l’esempio è Picasso, uno che manco usciva dal suo laboratorio tanto era infoiato dai suoi pennelli e dalle sue tele.
Persino nell’amore ci vuole una forte dedizione. Un rapporto va avanti se si ascolta costantemente il cuore dell’altro, se si sta abbracciati ogni notte, se ci si scalda al fuoco in tutti i momenti possibili, anche su facebook, tra i mille messaggini di What’s App. Non l’ho spiegato a Vinicio e Zeno, ma addirittura il sesso è così: più si scopa, più una coppia si diverte; meno lo si fa, meno si riesce a far godere chi ti sta sopra (o sotto o di lato).
Tornando a noi, a Zeno all’Ordival, ho consigliato al mio bambino di non mollare, perché nella vita non è importante da dove si parte, ma dove si vuole arrivare. Ve lo dice una sega, che gli altri, a torto, individuano come un talento, non sapendo quanto mi spacco sulle cose fin dai miei cinque anni.