di Matteo Bonfanti
Ogni volta che Grillo o uno dei suoi insulta qualcuno, mi viene in mente mio nonno Riccardo. E’ morto che avevo nove anni, se l’è portato via un tumore: un mostro aggressivo, che andava di fretta, senza pietà di lui e di nessuno di noi. Non abbiamo avuto neppure il tempo di salutarlo. E il ricordo che ho di lui non è nitido, somiglia a una fotografia scattata con la Polaroid. Era in bianco e nero, col tempo la mia curiosità l’ha cambiata, colorandone lo sfondo che ora è azzurro e giallo come il cielo di Lecco quando c’è il sole che ne illumina il lago e il Resegone. A dipingere l’immagine sono state le risposte di mio padre, un figlio innamorato di un babbo che aveva una visione del mondo opposta alla sua.
Riccardo era democristiano, Marco, appunto mio papà, è da sempre comunista. Li accomunavano due cose: l’amore per le parole, entrambi scrivevano poesie d’amore; e la passione politica, uno era un dirigente della DC, l’altro uno degli appassionati (e affascinanti) leader di Democrazia Proletaria. Quei due, da più di un decennio, avevano un appuntamento imperdibile ogni sera alle sette: due amari prima di mangiare guardando il telegiornale di Rai Tre, un’oretta tranquilla strappata agli impegni quotidiani, per confrontarsi sulle notizie, rispettandosi come soldati in congedo: una pausa dalle rispettive trincee per darsi un paio di abbracci, per accorgersi, sottovoce, di stimarsi profondamente.
Durante la guerra mio nonno aveva fatto parte del Comitato di Liberazione Nazionale, sorto per liberarci dai nazisti anche nella mia piccola città. Di quel periodo, quando io ero piccolino, gli era rimasto gran poco. Non la bellezza propria di chi è giovane né il bisogno di avventura lungo i sentieri delle nostre montagne. Quel che non aveva perso erano i valori: l’antifascismo e la gratuità della politica. Scriveva i discorsi all’onorevole Calvetti, un uomo potente e famoso. E a un punto gli avevano chiesto di candidarsi, in Regione oppure a Roma, e lui aveva detto: “No, non m’interessa”. Mentiva. Il suo problema era un altro: aveva sempre in testa la questione morale, ripeteva a mio padre che i soldi sporcano le mani, comunque, anche quelle delle brave persone. Il suo impegno era quello di un cittadino. Per lui la sezione era un obbligo e quindi non doveva portare ad alcuna retribuzione. Ed era lo stesso pensiero di mio papà: le lire del suo stipendio da maestro elementare investite nei cartelloni che avrebbero fatto nascere un giorno la rivoluzione. Che avrebbe migliorato la vita di tutti. Non solo la sua.
Sento Grillo, i grillini, leggo le dichiarazioni sui giornali, le frasi deliranti pubblicate sulle loro pagine facebook e vorrei parlarne con Riccardo. Mi piacerebbe vedere la sua reazione all’ennesimo “vaffanculo” in piazza oppure commentare con lui il “boia” detto al presidente della Repubblica, o, ancora, vedere il suo viso di fronte agli insulti ai migliori giornalisti italiani, alle black list redatte da uno che si è arricchito facendo il comico a “Fantastico” e il testimonial per uno yogurt che manco mi piaceva.
Avessi Riccardo ancora qui gli chiederei cosa pensa delle offese alle donne degli altri schieramenti, chiamate “puttane”, o come reputa un uomo che parlando in televisione riapre le ferite insanguinate di un’intera generazione definendo Adriano Sofri un assassino. Sogno quell’appuntamento alle sette di sera, io e mio nonno: due amari e un’ora di discorsi, soffusi, per farmi riscaldare davanti al camino delle idee. Se sono giuste, infiammano gli animi e non c’è bisogno di alzare la voce. Se sono belle, restano nel cuore.
Io scrivo. Lo faccio per lavoro e per me le parole sono importanti. Da quando sono padre di due bambini lo sono ancora di più perché ho scoperto che sanno anche spaventarmi. Vinicio, quasi otto anni, Zeno, quasi sei, le sentono sull’Ipad o in televisione e poi me le ripetono. Alle volte sono bellissime, più spesso irripetibili. Allora mi metto sul divano e gli leggo le rime dei poeti, la gioia che dà il suono delle foglie in autunno. Perché io ho bisogno che i miei figli siano diversi. Non voglio che vivano stretti nell’angolo dell’odio, dell’egoismo e della prepotenza, spero per loro la luce chiara dell’impegno, quella di Riccardo, di Marco, da parti opposte, ma al lavoro per tutti, soprattutto per gli avversari. Che vanno convinti. Non vanno annientati. Mio nonno, alle otto, prima che mio papà si mettesse la giacca per tornare a casa nostra, gli chiedeva di recitare insieme il rosario, che qualche “Padre Nostro” e una manciata di “Ave Maria” non gli costavano niente e avrebbero fatto bene anche a me e a mia sorella Chiara. Mio padre gli rispondeva di diventare comunista perché Gesù Cristo era stato il primo vero marxista.
Badate bene, non parlo di chi sta alla base dei partiti o del Movimento Cinque Stelle. Da una parte c’è Ernesto, sindaco di Valgreghentino del Pd, in Comune ogni santo giorno senza chiedere un euro, dall’altra  Carmelo, grillino, le ore passate in internet, a scrivere il suo blog, per fare di Palazzago un paese migliore. Io ce l’ho coi vertici: sfilano a Sanremo, o a Ballarò o da Vespa o a Servizio Pubblico sempre vestiti di fresco, con i loro completi nuovi e di marca, e non mi piacciono. Perché gli interessa solo della loro fazione, che sia il Pd o Forza Italia o la Lega Nord o i Cinque Stelle. Non gli importa né di me né che alla scuola materna di Zeno c’è così tanta povertà che un mese sì e l’altro pure a noi Bonfanti vengono i pidocchi. A loro frega del potere, delle poltrone che danno i milioni da versare sui loro conti correnti, su quelli dei loro amici. E son tutti uguali, non hanno neppure una visione del mondo differente, non sono liberisti, non sono marxisti: stanno lì a gridare uno contro l’altro, per poi arraffare i miei soldi e quelli dell’altra gente normale. Che paga le tasse perché è giusto e va fatto e non c’è da nascondersi né da scappare.
Sono ultrà. Si scaldano spesso e poi partono a insultarsi in un copione misero e squallido, feroce, in un teatrino spesso identico a quello della puntata della settimana prima. E’ il format della nostra classe dirigente. Li ascolto mentre usano parole di cui io ho ribrezzo, che bisognerebbe eliminare. E penso a mio nonno Riccardo che se n’è andato troppo presto. Oggi la sua misericordia sarebbe un dono per chi l’Italia la dovrà ricostruire, ripensare. Rimboccandosi le maniche. Dolcemente. Per tutti. E senza urlare.