C’è questo mio momento, che per ragioni fortuite mi fa stare spesso solo soletto con Vini e Ze, i miei figli, ormai grandi e forti. C’è questa cosa, che dall’estate scorsa i miei ragazzi sono diventati uomini, alti alti, fighi sia nel sole che nel vento, quando sorridono o nel pianto, con il proprio cuore da curare e con gli amici con cui andare a vedere la commessa in centro. E hanno i giri in giro, le notti con la luna e con le stelle da far passare, qualche volta a battere, altrettante a levare, il parrucchiere domani alle due e mezza, la versione di latino da copiare, i sonni derubati, i bifolchi obbligati e tutto il resto, insomma il mondo che avevamo noi quando appena un secolo fa eravamo come loro, ragazzi che ascoltavano in macchina Come as you are.
E Vini e Ze hanno anche quel pezzetto da cucciolotti, uguale a me in quanto masculi, che è qualcosa che non si perde mai, manco a settant’anni, e che ce l’ho addosso tanto, questa sera, a quarantacinque suonati, con qualche capello bianco e con le rughe sul viso. Arriva ogni volta al telefono con mia mamma, “Sai, Vale, non so bene che cazzo fare…”, “Vai tranquillo, torno venerdì da Bologna. A Valgre c’è Erni pronto a farti da mangiare, altrimenti aspettami. Sei un grande”, “Grazie, mami, e scusami per questo vento freddo del Nord, ma è che è un giorno che sono piccolo piccolo, ma talmente piccino che potrei nascondermi in fondo all’Adda se solo sentissi che fuori sta per arrivare il temporale che sto sentendo dentro”.
C’è che venerdì compiva gli anni Chiara, mia sorella. Ne ha fatti cinquanta che sono molti, moltissimi soprattutto per me che sono perdutamente innamorato di lei da quando era identica a un soldo di cacio, una bimbetta di quarta elementare che all’occorrenza mi faceva anche da mamma e da babbo, le volte che per i miei erano di nuovo quei tempi là, la scuola e le poesie, i poveri cristi abruzzesi da salvare, il Sessantotto, il Settantasette, Lotta Continua, le P38, la spiaggia di Capocotta, Guccini e la Locomotiva lanciata a bomba contro l’ingiustizia, Ricky Gianco, compagno sì, compagno no, compagno un caz, Aldo Moro, Capanna, Democrazia Proletaria, la Cgil, il Caro Vita, la Scala Mobile, né con lo Stato ma nemmeno con le Br, Pasolini che si è perduto e Craxi che è una merda.
E alla festa di Chia c’eravamo tutti, madri, padri, amici d’infanzia, cugini e i miei tre meravigliosi nipotini ormai nipotoni, Pietro, Anita e Miranda. C’era che ero a disagio, non tanto, al solito, mascherato come ho sempre fatto nella vita, dedicandomi e raccontandomi, lasciando la malinconia solo in quel pezzetto in fondo ai miei occhi celesti mentre faccio lo scemo ballando e cantando dietro i paraventi. C’era tra gli invitati la vicenda affascinante che so scrivere, che è poi il mio lavoro, che per me non è mai stato un dono, è stato come mettersi a imparare a suonare la chitarra, due ore la mattina, due ore la sera, mentre per tutti gli altri è una magia, lo strambo regalo di un Signore che elargisce talenti a caso il giorno che sei in fila e ti manda giù con la prima cicogna libera. E ognuno mi faceva mille domande, e io, nelle pieghe di quel leggero frattempo, dolce e cordiale, arrancavo senza una risposta degna, dico qualcosa di profondo almeno quanto il nostro lago.
Poi all’improvviso Vini e Ze mi hanno dato la mano, forte e stretta, e mi hanno detto: “Andiamo a casa, papà, ormai è ora di stare tra di noi”. E finalmente tutto è tornato semplice e meraviglioso. E siamo arrivati a casa soli soletti con la Panda. E, con loro accanto, sulla strada ogni cosa era illuminata. Poi ci siamo baciati, che è il nostro rito, e siamo andati a letto. E ho dormito dieci ore ininterrottamente, finalmente felice che la vita sia così, tra tre meravigliosi complici che manco hanno bisogno di una manciata di parole nuove.
Matteo Bonfanti