Avrei voluto scriverti, almeno quello, in questi anni in cui per colpa mia ci vediamo ogni volta poco e male. Mi sono alzato presto e ti ho pensato tanto e a lungo, del resto ieri per me era la tua festa, mentre per i miei figli era la mia. Uguale a te, mi sono occupato di loro, li ho portati fuori a mangiare, siamo stati a ridere e a scherzare, a battere e a levare, abbiamo parlato di scuola, di ragazze e di calcio. Poi sono andato a lavorare, un attimo prima li ho baciati sugli occhi come fosse il nostro ultimo tango a Parigi e non potessimo più trovarne l’occasione. Loro mi hanno dato due fogli, i loro disegni, facce e frasi in circolo, piccoli e minuscoli, già grandi. Che poi magari era così anche quando eravamo accanto in quell’appartamento freddo come il becco su in Falghera, soli, dico noi quattro, io, te, Chiara e il mazzo delle tue carte con cui giocare appena arrivava la sera, qualche volta, invece, da mettere sul tavolo per aiutarti a decifrare. Ma c’è che da allora è passato troppo tempo e oggi ho pianto, sono stanco e alla fine non ricordo più se ti ho mai fatto un disegno per il 19 marzo. Se è capitato, sono sicuro che l’avrai perso, finito per sbaglio o per fortuna in un’assurda macchina di quarta mano tipo l’Austin Allegro della maestra Marilisa durante uno dei mille traslochi che all’epoca ti toccava fare e ti dovevi inventare. E allora se questo disegno non c’è, se si è perduto o non te l’ho fatto mai, lo faccio ora, col mio solito ritardo di un giorno e mezzo, a quarantasei anni e senza i pastelli della Giotto o i pennarelli grossi della Carioca, che qui in redazione non li abbiamo, che forse c’erano, ma che magari si sono nascosti nel frattempo. Ci metto quello che ho, l’azzurro dei tuoi occhi, il giallo delle tue battute e il rosso delle tue passioni, che poi, a guardarci bene, sono le parole che mi hai insegnato tu. Che ero piccolo piccolo ed erano già tutte lì, in fila, a ballarmi intorno, nella cassetta “Varie 74”, la mia preferita dell’infinita collezione che stava accanto al tuo mangianastri della Sony, con Luci a San Siro di quella sera, che adesso è un sottofondo di cui avrei bisogno, uguale identico a te nell’ultima scena di Paris Texas, quella in cui il mondo sta crollando e lui finisce per chiedersi “se lei c’è stata o non c’è stata e lei chi è”. Ma non è questo, è un altro verso a memoria di Vecchioni, neppure dell’uomo che si gioca il cielo a dadi, che a me ricorda sempre te e il nonno Cesare. E’ un pezzo minore, di cui non so il nome, ma che ha due righe che mi aprono sia l’anima che il mio universo, insomma il cuore, riportandomi lungo quei corridoi che ci hanno visto insonni, a inventarcela fino al mattino. Dice: “Papà, voglio ancora giocare, ma se sparo, non devi cadere. Non devi farmi vincere sempre, perché so, che sei tu, il migliore”. Auguri, Marco, domani o tra una settimana passo a trovarti. Promesso.
Matteo Bonfanti