Il sole era calato da un pezzo lasciando un cielo nero privo di stelle. Sull’imbarcadero c’erano un sacco di persone. Nessuna mascherina, nessun distanziamento sociale. Alcuni non riuscivano a stare fermi perché le casse pompavano a tutto volume “Voglio vederti danzare” di Giorgio Prezioso: di certo non la mia canzone preferita ma, siccome parecchio che non l’ascoltavo, il ritmo mi stava entrando nelle viscere. Altri invece erano ieratici, con una faccia da funerale e guardavano con commiserazione quanti saltellavano stregati dalla musica. Feci spallucce cominciando a dimenare i fianchi come un ballerino consumato, muovendomi per seguire la massa che intanto si spostava sul molo e, mentre il frastuono emesso dagli altoparlanti calava d’intensità, arrivai a intravedere un traghetto ormeggiato alla banchina: appariva in tutta la sua grandezza nonostante fosse di colore scuro perché i ponti erano ben illuminati sia dalle luci di bordo che dai fari del porto. L’aspetto della chiatta però era ben poco rassicurante proprio come il suo nome: Titanic. Evidentemente il proprietario non era un tipo superstizioso. Appoggiate a terra c’erano tre passerelle per la salita dei passeggeri. Alla base delle stesse stavano tre tizi palestrati con indosso pantaloni scampanati e una maglia nera aderentissima su cui risaltavano in bianco le parole “security” e “intelligence”. Buffo trovarle scritte assieme perché solitamente la prima esclude la seconda. Andai oltre a quella personale considerazione notando che i tre ammassi di muscoli avevano un block-notes e dal modo di fare sembrava che ciascuno stesse sbraitando nomi senza un criterio. Alle passerelle infatti accedevano personaggi alquanto eterogenei, sia di razza che di ceto sociale. Mi parve di intravedere persino qualcuno senza vestiti. Un urlo stentoreo dissolse le mie riflessioni perché nell’aria tetra della notte riecheggiò il mio nome. Mi feci largo tra la folla ed arrivai allo “Shwarzenegger de noi altri” ma lui, contro ogni aspettativa, non mi degnò nemmeno d’uno sguardo e neppure mi invitò a salire sulla passatoia: lo feci e basta.
Messo piede sul traghetto vidi che a bordo vi fosse già una folla oceanica ma, nonostante ciò, raggiunsi senza troppi problemi il parapetto sul ponte di prua e, meraviglia delle meraviglie, vidi nella notte la nostra meta: un’isola che brillava nell’oscurità come una lampadina in una stanza buia mentre fasci di luce solcavano il cielo tenebroso. Sorrisi invitato a farlo da quella visione, rassicurante così come lo è un punto di riferimento nel nulla più assoluto. Un istante dopo, il suono grave della sirena della nave mi fece sobbalzare che poi si mosse facendo rotta per l’isola. Non era molto che eravamo salpati quando una melodia attirò la mia attenzione. In tutta sincerità feci una smorfia derisoria quando riconobbi il remix di Gabry Ponte “impiccheranno Jordi eccetera”, ma fui pervaso dalla stessa sensazione provata sull’imbarcadero, scoprendomi ad ancheggiare seguendone il ritmo. La chiatta proseguì avvicinandosi all’isola: la musica che da lì proveniva era sempre più forte ma ad un tratto cessò di colpo, i fasci di luce dei proiettori si arrestarono puntando dritti nel cielo nero, poi silenzio assoluto. Nei cinque secondi successivi potei assaporare il vento sulla faccia, il rumore delle onde e… un boato, un’ovazione (che non a caso fa rima con esplosione) quando partirono le prime note di “L’Amour Toujours” di Gigi d’Agostino: un brivido mi costrinse ad emettere un gridolino d’eccitazione unendomi alle urla di quanti stavano con me sulla barca e sorridendo del vecchiume che probabilmente doveva esserci in quel posto. I riflettori avevano ripreso a scandagliare la notte e mentre ero assorto nelle mie fantasie il battello attraccò, rimisero le tre passerelle e ordinatamente iniziammo le manovre di sbarco.
L’impressione avvertita sul molo alla partenza fu avallata dal fatto che in fila accanto a me ci fossero veramente due tizi nudi come mamma li ha fatti. Mi voltai a cercare consenso ma nessuno sembrava interessarsene perciò feci lo stesso, uniformandomi all’indifferenza generale. Con la coda dell’occhio vidi però un tizio sul ponte di comando dall’aria lugubre con indosso un tabarro, che mi indicava. Il volto era in ombra, vedevo chiaramente solo il suo dito puntato. Boh, feci una smorfia agitando la manina per salutarlo, quindi scesi dal legno toccando terra. Niente palestrati a dirigere il traffico stavolta, solo un personaggio in giacca e cravatta stile “Le Iene” di Tarantino con al guinzaglio tre bestie nere che ringhiavano e sbavavano spaventosamente come se non mangiassero da giorni. Seguii la massa quasi spingendoli, controllando i cani di sguincio, e salendo degli scalini che portavano ad una struttura illuminata incontrai un arco in ferro battuto con sopra una scritta luminescente: “Lasciate Ogni Speranza Voi Che Entrate”. Dopo averla letta e riletta pensai lo stesso che per il nome Titanic sulla prua del battello, sbuffando e scuotendo la testa. La musica rimbombava infatti arrivai dinnanzi al locale che appariva come un enorme struttura dal tetto basso costruita interamente in legno. La gente entrava con estrema calma ed io pensai di fare lo stesso, ma un personaggio agghindato con una veste alla maniera degli antichi greci si agitò energicamente attirando la mia attenzione. Mi fermai e lui mi raggiunse tutto trafelato. Un uomo di media corporatura, stempiato con barba e capelli crespi mi porse la mano presentandosi come Omero, quello dell’Iliade eccetera eccetera. “Natale, Babbo” risposi io porgendo la mano e lui rise di gusto stringendola, dicendo che sapeva benissimo chi fossi in realtà, che lì ero famoso. Stavolta fui io a ridere a quelle parole ma lui, appoggiando una mano sulla mia spalla come si fa con un vecchio amico, mi invitò a seguirlo. Entrammo nel locale da un’ampia apertura laterale e finalmente vidi il deejay: un capellone biondo scuro con barbetta sfatta, il responsabile di quell’accozzaglia di musica vintage che mi sforzavo di snobbare ma che mi piaceva da matti perché non riuscivo a stare fermo. Omero, o come diavolo si chiamasse in realtà, mi disse che quello era Cristo ed io pensai al tizio della passerella sul lago d’Iseo. Ma il poveretto è morto, costatai, e poi non era un deejay, infatti il greco, il turco o che cazzo ne so io (di Omero non si è certi nemmeno dell’esistenza, figurarsi dei natali) rise con le mani sulla pancia ripiazzandomi la mano sulla spalla per proseguire il giro. Le casse pompavano e le luci stroboscopiche seguivano il ritmo della musica contribuendo a creare un’atmosfera psichedelica. Nel momento che vidi una schiera di palestrati alla base di una piccola scalinata compresi che là sopra doveva esserci il privé. La mia guida, che ormai avevo battezzato tale, mi spinse a seguirlo verso gli scalini ma non è che fossi molto sicuro di farlo perché gli energumeni erano innervositi dalla mia presenza ed era sempre più limpida l’immagine d’un bel cazzotto sul mio naso. Omero mi disse di non temere, “tu guarda, passa e non ti curar di loro”. Mi arrestai aggrottando la fronte perché quella frase l’avevo già sentita. Lui sorrise accomodante, mi tirò per un braccio e salimmo gli scalini. Fatto l’ultimo arrivammo ad un ampio salone dal pavimento a specchi, con avvolgenti poltrone bianche su cui stavano seduti diversi personaggi. Inquadrai subito il tizio obeso, pelato e scarsamente vestito come l’estroso proprietario della baracca, autore della frase all’ingresso, del Titanic e compagnia cantante. Rivolsi la domanda alla mia guida per fugare il minimo dubbio e lui rispose che quello era Siddharta. Vedendo la mia faccia alquanto stranita aggiunse “il Buddha”…al che riporsi la mano dicendo “piacere, Natale Babbo”. Omero rise ma stavolta lo fece in modo più contenuto, quasi ossequioso e puntando appena il dito indicò i tre personaggi accanto all’obeso che parevano gemelli omozigoti sebbene vestiti in modo completamente diverso, sia per genere che per colorazioni. “Quelli sono Jahvè, Allah e Deus” mi riferì compiaciuto. Inarcai le sopracciglia, gli appoggiai delicatamente la mano sulla sua spalla commentando con un laconico “ma vaffanculo”.
Non l’avessi mai fatto! Un tizio, che inizialmente non avevo visto perché stava seduto defilato, mi lanciò il bicchiere comprensivo del cocktail che stava trangugiando mancandomi per un soffio e, schiantandosi su una colonna del locale, si frantumò in mille pezzi allarmando i bestioni di sotto che in un lampo salirono gli scalini. Omero, alzando le mani, li placò rimettendoli a cuccia, poi passò al tizio che imprecava, che digrignava i denti e sbavava incollerito, dicendomi di non preoccuparmi che Mefistofele era un tipo focoso, che bastava poco per accenderlo ma in fondo era una brava persona. Sarà, ma a giudicare dall’atteggiamento minaccioso con cui avanzava verso di me non mi parve affatto. L’impressione fu confermata un istante dopo quando il presunto bonaccione afferrò il povero Omero scaraventandolo giù dal privé: in quel momento avvertii una stringente sensazione allo sfintere anale impietrendomi dalla paura. La sua faccia spaventosa era deformata dall’ira: vidi la collera nei suoi occhi fiammeggianti ed un pugno enorme diretto sul mio grugno sicuro che mi avrebbe spappolato il volto. Chiusi gli occhi terrorizzato al punto che qualsiasi rumore svanì dalle mie orecchie, m’irrigidii pronto all’impatto e… e non accadde nulla. Paura e curiosità spesso si confondono costringendomi a riaprire gli occhi di colpo, ritrovandomi nel letto tutto sudato e completamente vestito. Il cuore andava a mille. La testa pompava come se King Kong fosse dentro a suonare i bonghi. Mi levai a fatica e barcollante andai in bagno guardandomi allo specchio: “cazzo che faccia” pensai, ma niente sangue, niente lividi, solo i chiari residui di una sbornia colossale. Optai per una doccia fredda e, quasi meccanicamente, la mia mano finì nella tasca della giacca avvertendo la presenza d’un cartoncino. Lo tolsi e lessi: “Paradise Group – Travels & Fun – Ibiza” e sul retro “Serata fighissima. Fatti sentire. Omero”.

Marcus Joseph Bax