Da quando sono diventato grande, amo un sacco parlare con mio padre, Marco, ex maestro delle elementari, ora in pensione. Mi piace, un po’ perché mi fa ridere, del resto è un uomo coltissimo che si confronta da sempre col suo lato tragicomico, poi perché mi tira fuori dai suoi capelli, ancora folti nonostante l’età, ragionamenti incredibilmente giusti, che io, che leggo tanto tanto, tipo per la gran parte della mia vita, non trovo su alcun giornale.
L’altra sera ero da lui, a Lecco, c’era anche sua moglie, Angela, eravamo a tavola e inizialmente chiacchieravamo dello sterminio che noi occidentali, israeliani, americani ed europei, tra cui la parte nera nera di noi italiani, adesso al comando, stiamo facendo o permettendo a Gaza, “e che cosa c’entrano dei bambini con una guerra civile?”, “e come è possibile bombardare una città nelle ore di scuola?”, “e lo sanno che un conflitto porta ad altri conflitti e non ne usciranno mai?”, “è uguale a quando la battaglia era qui da noi, coi nazisti che andavano ad accoppare tutti, pure quelli senza armi, persino i figli dei partigiani…”.
Ecco Marco, mio papà, comunista, un uomo immenso. Ma è più la sua analisi sulla serie infinita di femminicidi in Italia che mi ha dato da riflettere mentre ritornavo a Bergamo, pensando tra me e me “sì, il vecchio ci ha preso un’altra volta”. Mi ha detto: “Certo, siamo qui e con quelli lì al governo, dio, patria e famiglia, sicuramente è anche una vicenda patriarcale. Ma per me conta di più che da un certo punto in poi siamo tutti rimasti soli. E’ la solitudine che mette addosso la rabbia. Sono stato lasciato da parecchie donne, ma non è mai stato un problema, avevo i miei amici ad aspettarmi a quell’angolo, correvo a incontrarli ed era una festa, il massimo del divertimento. Adesso la gente ha i social, è collegata, ma non ha nessuno da vedere, manco uno con cui parlare. Se ti lascia la tua ragazza, non sai più che cosa fare. E sprofondi nell’ansia, non ce la fai, perdi il senno e diventi violento”.
Che dire? Le volte che ho sofferto per amore, almeno tre, incazzandomi, ovviamente dentro un certo margine, una dozzina di vaffanculo scritti in stampatello grande su whatsapp, altrettanti odiosi vocali e una porta presa a cartoni, era perché ero disperato e senza un’anima al mondo da andare a trovare. Poi ho imparato, la terapia e una rete d’emergenza da lanciare nel mare della Lombardia per pescare i cinque amici più cari, pronti, nel caso, a farmela passare davanti a un paio di birrette e a sette battute di quelle giuste. Questo bisogna spiegare ai nostri ragazzi, il valore della compagnia, raccontata in modo perfetto nella famosa canzone di Lucio Battisti, e a non rinunciarci per alcun motivo, proprio come fa il maestro Marco, mio papà, ancora oggi coi suoi soci a vedersi le partite del Lecco o a giocarci insieme a scopa all’asse.
Sui bombardamenti a Gaza non c’è molto altro da dire. C’è la frase della settimana, “viva l’Italia antifascista”. Che ripudia la guerra. E’ l’articolo 11 della nostra Costituzione, uno tra i migliori di una carta straordinaria.
Matteo Bonfanti
Nella foto: Marco Bonfanti, mio papà