C’è questa vicenda dolcissima e strana, che anche oggi sta nel mio cuore perché è ormai quotidiana ed è la gratitudine per questo luogo che mi ha accolto ormai vent’anni fa e che continua a farlo quasi si sentisse in debito con me per via di tutte le mie parole.
Allora decisi di venire qui per caso, trasportato dalla corrente dell’Adda. Cercavo un’isola in cui scappare da casa mia, Lecco, mio padre, mia mamma, la mia stirpe e l’affascinante malinconia delle corse lungo il lago. Avevo quella età in cui si ha bisogno di fare quel pezzetto, staccarsi un attimino, una cinquantina di chilometri, per diventare grande. Dovevo battere e levare, vincere o sbagliare, cadere e risalire, ma da solo, senza la cura dei consigli di due genitori meravigliosi che hanno sempre pianto e sorriso insieme a me.
E sono partito. E fin da subito ho sentito che Bergamo era il solo posto dell’anima mia. Aveva viali lunghi lunghi e una storia millenaria, comunisti grandi e forti al Pacì e fascisti nelle fogne, l’Atalanta che lottava con altre armi rispetto al Milan o alla Juventus perché aveva idee opposte, l’appartenenza, il crederci pure se si sta sotto di tre gol, il vivaio, Favini, il Vava, Donati, i due Zenoni e gli altri ragazzini. E in Curva c’erano il Bocia, il Baffo, il Roby e gli ultrà della Nord, casinisti fino all’osso, bergamaschi un sacco punk, onesti e genuini come me che all’Eco mi hanno chiamato due volte, ma senza richiamarmi mai.
All’inizio amavo Bergamo perché non c’era mai silenzio. Abitavo in via Previtali, c’era un baretto e la gente bestemmiava fino a notte. E mi faceva il dito per strada perché non sapevo guidare la Pandona, ma poi mi coccolava. Si accorgeva e ci teneva, mi grattava il crapino se ero disperato, e da un secondo all’altro mi portava qualcosa, un regalo, quasi fosse ogni giorno il 25 dicembre, anzi la vigilia, la magica notte di Natale. Tanto il Gigi e la Giuliana, immensi, un ottico per me che non ci vedo e una ristoratrice per me che amo magnare di notte per addormentarmi come un sasso, e poi tenerissimi, un fratello e una sorella, avanti in ogni dove, a dirmi la mattina: “Matti, arriva qui che sei il benvenuto”.
Dicevi ed era il 2000, l’inverno che partivo: “I bergamaschi sono zotici, razzisti e insensibili. Mangeranno te, ogni tuo sguardo, persino i mille sorrisi che tu regali gratuitamente al mondo”. E io ci pensavo tanto anche perché al mio primo colloquio di lavoro il direttore mi aveva detto: “Sei un baggiano e non ci capirai mai perché qui siamo chiusi al mondo. E tu non sei speciale, non tentarla nemmeno”.
Ma Sergio si sbagliava perché le Mura già allora erano altro, non erano più per difendersi, ma per farsi ammirare da chi arrivava a Orio scoprendo che la nostra città è un gioiello raro, unico al mondo, e manco serve farsi un’ora per andare a Milano. Bergamo è così, la Bologna che ho amato da bambino, aperta e libera, è la ragazza stupenda che non se la mena, figa di brutto, dolcissima perché misericordiosa, piena zeppa di cassetti al cioccolato che manco te li aspetti.
E accogliente, ogni volta, ieri con la signora che mi inseguiva perché legge i miei racconti, oggi con Matteo Concilio, l’artista che più stimo, arrivato con la sua Greta in redazione per regalarmi il suo coccio, la mia tazza, quella del Vestaglietta. Per gioco, tenerezza e accoglienza, le tre frasi che descrivono meglio Bergamo e la sua gente.
Matteo Bonfanti