Io, Vini e Zè, i miei due meravigliosi ragazzi, siamo stati dieci minuti a ridere perché una mezzoretta fa il sosia di Greenbaud ci ha sgridato. Era al tavolo accanto al nostro, era uguale uguale al famoso idolo delle ragazzine, solo quell’attimo più grande, e noi stavamo lì a tirarci mille menate su di lui, “che sia il fratello?”, “che sia il cugino?”, “che sia lui, ma invecchiato dopo un viaggio nel tempo con la maghina di “Ritorno al futuro”?”, “famogli una foto”, “famogliene due”, “prendilo di striscio mentre ci facciamo il selfie”. Finito di magnare, gli abbiamo chiesto di mettersi in posa, insomma in un’immagine ricordo tutti insieme, fatta con ogni sacricrisma. Si è inalberato: “Non sono Greenbaud e manco un suo lontano parente, voi tre siete fuori di testa e piantatela lì con ste cazzate che mi avete rotto la minchia”. Severo, ma giusto, il siciliano sosia vecchio di Greenbaud. Poi siamo corsi fuori dal locale e ci è scappata la ridarola. Abbiamo concluso poco fa.
Ho appena finito di impaginare il terzo libro del mio anno calcistico, il 2021/2022, quasi tutto vissuto da editore. Il volume si chiama “La gente del calcio” ed è un altro sogno che ho realizzato, raccontare le mie persone, quelle del pallone di provincia, le più belle al mondo, un po’ l’ho scritto io, cinque dei sessantadue capitoli, un altro po’ i miei collaboratori, che amo, perché sono giovani e forti, innamorati delle frasi messe in fila per filo e per segno, qualcosa che li salverà quando si troveranno di fronte dei tipacci brutti ed arroganti con l’avvocato sempre al seguito.
“Ti penso, amore mio bellissimo, in questo momento, più o meno le dieci di sera, ora, sul terrazzo, proprio a un passo dalla luna di Bergamo, mentre sei lontana e chissà con chi stai parlando. Ti sfioro le labbra e il sedere, sicuro che sentirai le mie carezze lungo le tue cosce che sono da guardare e da riguardare, da ammirare e da desiderare. E bacio ogni angolo di te, il naso, le orecchie, gli occhi, la fronte e i piedi, e poi ancora, di nuovo e per tre volte tornando su e giù dai tuoi seni. Ti adoro, popina, volevo lo sapessi. E grazie che ci sei”.
Nei libri la pagina quattro è quella in cui si mette una frase, l’idea dell’intero lavoro, spesso una citazione fichissima. Ne “La Gente del calcio” ne avevo infilata una di Beckenbauer, incredibile, identica a come la penso io, che puoi essere comunista, anarchico, leghista, berlusconiano o fascista, ma poi, se anche tu sei del Milan, pure chissene di cosa voti. E ti abbraccio stretto stretto se ti trovo accanto a San Siro quando Theo la mette appena sotto l’incrocio. Il grande Franz la riassume perfettamente così: “Il calcio è uno dei mezzi di comunicazione migliori al mondo: è imparziale, apolitico e universale”.
Splendida, ma l’ho tolta e l’ho cambiata. Ho scelto di farlo ieri sera, che avevamo qui i parenti di Stepan, il migliore amico di Vini, quattro persone di Kiev, una mamma e i suoi tre bambini appena fuggiti dalla guerra, in silenzio, un silenzio inquietante perché non conoscono l’italiano e poi perché è difficile fidarsi dopo le bombe addosso, in silenzio, un silenzio di sguardi disperati, uguali alla morte, perché col proprio papà di là a combattere, in silenzio, nell’assurdo silenzio dei confini tra gli Stati, “ti aiuto a compilare le carte da profuga…”, ma profuga di che? Sei come me, hai fatto dei figli e abiti su un pianeta chiamato Terra. In silenzio, senza piangere, senza fare casino, senza dare fastidio, perché gli stranieri vanno bene, ma solo se se ne stanno buoni buoni.
“Per ridere, per sognare, per amare e per giocare servono le parole. Questo libro è dedicato al popolo ucraino in fuga e al popolo palestinese a cui hanno tolto la terra, sperando che ritrovino al più presto la propria lingua, l’allegria, i sogni, l’amore e il pallone”: questo è quanto troverete a pagina quattro del nuovo libro edito da Bergamo & Sport, questo è quello che io e i miei giornalisti vogliamo. Si chiama Pace ed ha la lettera maiuscola.
Matteo Bonfanti