Intanto la strada, il mio posto, il solo dell’anima mia, la calle che è il cortile, fin da bambino, già alle due del pomeriggio, un panino col salame, la corsa sulle scale, il Tango che mi brucia tra le mani, la porta a vetri, il cancello, che non va sbattuto, mia mamma che mi guarda dal terrazzo, “dove vai?”, “qui fuori, suono a Gianni e a Cristiano, facciamo uno in porta e gli altri due che si scartano. E mi sa che è la volta buona, che sto giro vinco io”. Poi la mia macchina, la Pandona, da Bergamo a Lecco, ieri verso sera illuminata dalle luci dei lampioni, uguale uguale a come mi immagino sia una barca quando naviga tranquilla nel mare che conosce, che è calmo e non fa del male. Sono solo, così sul sedile del passeggero si accomoda il mio personale dio. Somiglia a mio babbo, la barba e i capelli bianchi. E’ complice e generoso, è allegro e divertito. Mi dice: “La tua vita è liscia come l’olio”. E i miei occhi celesti non hanno paura a raccontargli quello che sta restando del mio giorno.
Mi hai sempre chiesto: “Dove vai?”. Mi hai sempre consigliato: “Potresti fare come quasi tutti i tuoi colleghi. Ascoltare le parole al telefono, farti mandare la foto. Risparmieresti il tuo tempo e il tuo denaro, arriveresti prima a casa”. E io non ti ho risposto mai, del resto è così poco che ne ho capito il motivo, il mio bisogno di conoscerne lo sfondo. Per scrivere di una persona devo ascoltarne le strade, quelle su cui cammina, quelle su cui ha camminato, spesso un tutt’uno con la voce e con gli occhi, con le braccia e con le mani, fino a giù, alle gambe e ai piedi nelle scarpe.
Ne abbiamo parlato tanto, a lungo in mille notti, d’accordo fosse la rete, prima i siti, poi i social. Pesca i nostri lettori, ce li porta via, rischiando che il nostro mestiere, il giornalista, diventi un giorno qualcosa che si farà ancora, ma giusto per passione. C’è questo, ma pure che da un certo punto in poi ci siamo perduti anche noi, persi dentro un telefono, nei vocali e nelle chat, scordandoci di raccontare la strada, il viso, i capelli folti, il colore e il calore dello sguardo, le canzoni in sottofondo, forse ancora più importanti delle parole.
E’ un mese, ho questo mio libro che sta diventando una fortuna, con la Pandona a portarlo in lungo e in largo, raccogliendo le storie che ho voglia di raccontare. Solo ieri ne ho ascoltate tre. Prima quella di Michele, giovane e stupendo valtellinese, che si è messo in proprio, a vendere frutta e verdura, dopo cinque anni a fare il cameriere a Londra, nel quartiere nero di Tottenham. Poi c’è stata Annalisa, che ha una lavanderia e un bambino di dieci anni, che ogni sera vuole ascoltare con lei il primo album di Vinicio Capossela per mettersi a ballare insieme all’Una e trentacinque circa. In mezzo la storia di Cristian, che di lavoro fa l’insalata tra cento e passa prati coltivati e li guarda e gli viene negli occhi un po’ di malinconia, perché vorrebbe fossero campi da pallone, la sua passione da quando era piccino, e che oggi il covid ci ha proibito di fare.
Solo questo, ci tenevo, un attimo prima di mettermi di nuovo in strada. 

Matteo Bonfanti

Nella foto il fruttivendolo Michele