di Matteo Bonfanti
Perdo tutto da sempre e passo buona parte della mia giornata a cercare quello che ho smarrito. Tre volte la macchina, che pare strano perché è bella grossa, insomma non è un portachiavi dell’Atalanta o un anellino indiano o un orecchino finto oro da tre euri dai cinesi. Una sera a Piacenza, con mio babbo, io e lui a sentire un concerto gospel di sua moglie Angela: usciamo e l’auto di famiglia, allora un’Austin Allegro, una vettura bruttissima, l’unica venduta in Italia, non c’è più, smarrita nelle pieghe della via Emilia, spostata in un altro parcheggio dagli alieni, che da tempo mi sono convinto si divertano a fare scherzi del genere agli umani svampiti. Poi a Cattolica, una decina d’anni fa, suoniamo in un localino balordo in cambio di un primo, cinque piatti di tagliolini pesto e vongole. Cantiamo, magnamo, beviamo e siamo fuori, dell’elegante Ford Bluona di mia moglie nessuna traccia, smaterializzata per poi ricomparire il giorno dopo nella sede dei vigili urbani. Gli agenti della polizia municipale della città di mare mi chiedono quattro cinquantoni non trattabili per ridarmela e la mia donna sostiene io sia demente, fornendomi un sacco di prove, per me confutabili. Recentemente a Orio al Serio, vado a fare i regali di Natale, scendo e la Pandona Aranciona non è più al suo posto. Un paio d’ore e mollo la ricerca, mi faccio venire a prendere, da lì passo due settimane a cercarla nei ritagli di tempo, finché la trovo, sorridente, bella come il sole, ad aspettarmi nel blocco C3, di cui ignoravo l’esistenza.
La notte la mia guerra è col telecomander Sky che ha il vizietto di infilarsi sotto il divano quando meno me l’aspetto. Sta lì, buonino buonino, io e lui in intimità, teneri, appiccicati, poi mi appisolo davanti al solito filmaccio, e lui mi lascia, si sposta, credo abbia bisogno di restare un pochino solo soletto coi suoi pensieri. Quando mi sveglio, nel panico perché c’è Gamble a tutto volume, mi metto a scoprire dove si sia cacciato. Ieri, ad esempio, era in bagno, forse si era fatto una doccia. Lo dico perché era cambiato, brillava, era più pulito del solito, privo dei pezzi di formaggio grana e di sugo rattrappito che ha solitamente incastrati nei tasti.
Mercoledì ho perso il cellulare. Mi sono alzato giovedì mattina e nei pantaloni non c’era, ho pensato fosse sulla Pandona Aranciona. L’ho ribaltata, ma del Samsung nessuna traccia. Speravo fosse in redazione, sulla mia scrivania. C’era il filo, non lui, con cui ho avuto un pessimo rapporto fin dall’acquisto, l’estate del 2014: mia mamma che mi dà quattrocento euri e io, che sono sottissimo in banca, faccio la cresta e compro lui, schifezza da 49,90, piccolo, lento e stanco, col dramma che non si sente la voce di chi mi chiama, una cosa che fa parecchio incazzare i bergamaschi.
Perdonatemi la premessa, era per spiegare che il telefono ha avuto i suoi buoni motivi per andarsene, in questi tre anni insieme non c’è mai stato feeling, nemmeno un momento felice e in più l’ho definito a più riprese “un cellulare di merda”. Ha fatto bene a lasciarmi, potessi lo farei anch’io.
Nel casino della mia vita ho aspettato un paio di giorni a dotarmi di un nuovo cellulare. Un po’ che dovevo mettermi in pari con dodici lavori, un po’ che ho colto al balzo l’occasione di non farmi beccare da due tipi che mi tormentano per altrettanti articoli, resta che mi sono fatto un attimo di clandestinità, scomparendo pure da facebook. E ho scoperto che la maggior parte delle persone che mi circondano sono assai prese male, dentro alla parte oscura della forza, quella che ha preso Dart Fenner nel quarto episodio di Star Wars  e che ti fa immaginare le peggiori sfighe. Chi mi chiamava e mi trovava spento, non s’immaginava fossi in Costarica a spassarmela con un Moito in mano e cinque mulattone ventenni intente a farmi spassosissimi massaggi erotici e rigeneranti. Credeva fossi morto, i più mi pensavano schiantato con la Pandona contro un palo della luce, mia mamma, soprattutto, ma anche amici e parenti. Preso dai sensi di colpa, sabato sono andato dai carabinieri a denunciare la scomparsa del telefono e poi a Media World a cattarmerne uno nuovo, l’Asus fighissimo che ho ora, il mio nuovo padrone. Tra me e il cellulare è una storia fresca fresca e quindi ci amiamo di brutto, cago solo lui, le sue innumerevoli app, lavoro poco e male, con mia moglie e i bambini non comunico quasi più, così come coi colleghi, sono innamorato, passerà.
Tutto questo perché mi piace scrivere, battere sui tasti del computer, vivere per raccontarla, ma anche per un pensiero bello grosso che mi è venuto l’altro giorno al parco Suardi, chiacchierando con la baby sitter dei miei figli, una donna bravissima della mia età, sulla quarantina. Mi spiegava che erano due giorni che tentava di comunicare con me, ovviamente non riuscendoci. Ed è stato un attimo e ci siamo persi via nei ricordi, noi due ragazzi, quando il cellulare non c’era e ci si ritrovava alle nove di sera al solito posto, per noi di Lecco il piazzale di fronte allo Scientifico. E se arrivavi tardi, te ne stavi a incioccarti da solo, spesso al bar del Vallo coi vecchiacci che si sfasciavano alle macchinette, perché era impossibile sapere dove fosse finita la compagnia. E mi succedeva di uscire apposta alle dieci per andare al lago, a tirare sassi o a scrivere canzoni, ed era bellissimo, era la libertà, che la mia generazione ha vissuto e ha perso. Quelli dopo di noi manco l’hanno assaporata, neppure un secondo, gli hanno consegnato il cellulare a dieci anni mettendogli un guinzaglio, divertentissimo, va detto, ma che ci fa stare tutti reperibili. Alla catena.