Dio mio se Pietro mi faceva incazzare, così tranchant e così letto, tantissimo, ma tipo da ogni bergamasco, di città e di provincia, piccolo o grande, un milione, pure quelli che tifavano Juventus o Milan. All’epoca l’invidia che sentivo sulla pelle mi faceva girare la testa. E poi la frase che mi ripetevano in redazione, neo assunto al Giornale di Bergamo, quando io il martedì sera scrivevo un articolo diametralmente opposto a quello che aveva scritto lui il giorno prima: “Matteo, che cazzo hai fatto? Hai letto Serina?”. Era l’inizio del nuovo millennio, io, ventitré anni, un cronista di bianca, meraviglioso a raccontare giusto le feste degli alpini di Cisano, spostato notte tempo a scrivere di Atalanta, di cui manco sapevo la categoria. E con lui dall’altra parte, all’Eco, che era quell’Eco, centinaia di migliaia di copie vendute ogni giorno, osannato, rispettato e lodato perché sostanzialmente un’enciclopedia vivente: freddi dati e analisi perfette, il vangelo del pallone orobico. Io no, piuttosto un giovane Marquez, col calcio come poesia, che anche chissene di quel che è stato durante la conquista della Coppa Italia del 2 giugno del 1963, “avete visto il tacco di Cristiano? A me ricorda la malinconia di Istanbul…”.
Lui era il top, col Guido e mille altri miei coetanei che, finita la partita, correvano a parlargli. Dettava la linea, metteva ognuno di noi sull’attenti, spiegandoci la diagonale. Io me ne fottevo in pubblico, leggendomelo in privato, il lunedì mattina al bar, di nascosto, segnandomene i segreti, staccandone le parti, l’attacco, lo svolgimento e il finale. E dopo mesi di apprendistato mi sentivo anche abbastanza bravino riguardo alla Dea e ai suoi misteri e incontrandolo c’ero restato quell’attimino male. Atalanta del Vava 2000-2001, strepitosa, io allo stadio, lui che mi incrocia e, vedendomi con gli orecchini e i capelli rossi e biondi, lunghi lunghi, mi dice: “Ti immaginavo fuori, ma non così tanto”. Ma forse lo ero, del resto da giovani si è stupidi davvero, lo dice pure una canzone di Francesco Guccini.
Da lì in poi non gli ho mai più parlato. E mi sono messo a imparare il mestiere del cronista sportivo leggendone sempre tre, lui, appunto Pietro Serina, conoscere la storia per sapere quel che accadrà la prossima domenica, Ildo Serantoni, ossia far godere il lettore della propria prosa, e Alessandro Dell’Orto, l’ingegno e la creatività. A loro devo molto, gli somiglio o, forse, lo vorrei. E i miei collaboratori lo sanno. Oggi sono venuti in tre a dirmi che Pietro ha chiuso con L’Eco, forse prossimo alla pensione, consigliandomi di mollare un attimo la revisione del mio ultimo libro per scriverne una sorta di epitaffio visto che è stato uno dei miei maestri, a riprova che la meno a tutti che in un articolo bisogna anche raccontare il passato remoto e il prossimo di quel club, di quella squadra e di quel giocatore. L’Almanacco del Calcio Bergamasco sempre sottobraccio, il colpo di genio suo e di Gigi Di Cio, la mia Bibbia.
Ma il mio non è un necrologio lavorativo, anche se, magari, Pietro deciderà di andare a caccia o a pesca nei dintorni di Fontanella o di Lovere e di non buttare mai più giù una riga, la mia speranza è infatti che passi a un altro giornale. Sono un suo alunno, quello che lui definirebbe “il peggiore studente mai cresciuto” e ho ancora bisogno di leggere ogni giorno un suo pezzo.
Matteo Bonfanti