L’inferno all’ospedale, poi una sorta di sequestro in una delle tante case di riposo della nostra provincia. Quello che è accaduto a Flavio Acerbis, un mio carissimo amico, una persona splendida, uno dei più forti calciatori con cui ho mai giocato, è il tristissimo e angosciante racconto di una sanità lombarda in forte stato confusionale.
Prima di raccontare l’intera vicenda dall’inizio, facciamo un passo in avanti: un mese e mezzo tra Papa Giovanni e Don Orione e Flavio oggi torna a casa. “Dopo trenta giorni passati all’ospizio posso firmare e tornare nel mio appartamento. A dodici giorni dal tampone non so ancora se sono guarito o ancora malato. Qui mi dicono che non sanno dove siano finiti i miei esiti. E io non ci credo. Mi sento completamente disarmato e arrabbiato. Ritorno a casa, ma ancora non so se posso o meno stare vicino a mia moglie, che ho paura di infettare. Non ho idea se posso riprendere a lavorare e come, se in smartworking o in ufficio. E come tutti sono molto preoccupato della situazione economica che si sta delineando, ho due dipendenti, uno di loro è impegnato a pagare il mutuo. Ho delle responsabilità nei loro confronti. Ho bisogno di certezze”.
La malattia di Flavio comincia il 9 marzo: febbre sempre  alta, polmoni che vanno sempre peggio, il 18 la moglie vede che suo marito si sta piano piano spegnendo. E chiama il pronto soccorso. “Sono arrivato al Papa Giovanni nel giorno peggiore di questa emergenza sanitaria. Sentivo che stavo morendo, i ricordi che ho sono quelli di un ospedale pieno zeppo di persone malate, dappertutto, in barella, assiepati persino negli uffici dei medici. Sembrava di assistere all’apocalisse. Mi hanno dato l’ossigeno, poi, vedendo che non reagivo, è stata la volta del casco. Ho queste immagini di infermieri e medici che corrono per assistere più persone possibili. Ho visto tante donne e uomini andarsene all’improvviso, con una coperta a coprirgli il viso. Non stavo in piedi, avevo il catetere, mille tubi addosso, ma mi sforzavo di tenere sempre gli occhi aperti. Sapevo che se li avessi chiusi, sarei morto. Passati i tre giorni più duri della mia vita, in cui mi sentivo più di là che di qua, ho sentito che mi stavano piano piano tornando le forze e sono riuscito a chiamare mia moglie, che, ovviamente, era nel totale panico e senza nessuna informazione sul mio stato di salute”.
Flavio, io lo conosco bene, è un bergamasco di quelli tosti, in campo come nella vita, di quelli che non mollano mai, da vero atalantino, la passione di una vita. “Ma al Papa Giovanni ho avuto momenti in cui ho perso completamente la speranza di poter guarire – racconta -. In camera eravamo in due, eravamo quelli che stavano meglio, che potevano sentire al telefono i propri cari. Una mattina il mio vicino di letto si è alzato e ha chiamato su whatsapp la sua famiglia. Tre ore dopo era morto, così, improvvisamente, lasciandomi in stato di shock. Anche quando stavo un po’ meglio, ho visto tante persone andarsene. Questa malattia è qualcosa di terribile, indescrivibile. Dei venti che eravamo nello stanzone del pronto soccorso, sono morti in otto. Io ringrazio medici e infermieri di avermi salvato la pelle, ma è un’esperienza che non scorderò mai”.
Arrivano le dimissioni e il 31 marzo Flavio viene mandato al Don Orione, una delle case di riposo bergamasche che ora ospita i malati di coronavirus in via di guarigione. Pensa che sia la fine di questa terribile vicenda, invece comincia il suo secondo incubo personale. “Mi hanno messo in una stanzetta con altri due pazienti covid come me, col bagno in comune. Dopo due settimane che ho vissuto interamente a letto, mi hanno fatto i due tamponi. E lì è cominciato il mio nuovo incubo, quello di non sapere se ero sano e potevo tornare a casa. Ho chiesto l’esito fin da subito, hanno iniziato a dirmi che loro non l’avevano, che forse si era perso, e che comunque dovevo avere pazienza perché i malati erano tanti e Ats aveva tantissimo lavoro da fare. Ho cominciato a sentirmi come un ostaggio, prigioniero della sanità lombarda. Ho chiamato in Regione, mi hanno detto che dopo due giorni avrebbero dovuto comunicarmi la mia positività o negatività al coronavirus. Mi sono fatto sentire, niente. A dodici giorni dal test, non riescono ancora a darmi risposte. Io, comunque, oggi firmo le mie dimissioni. Posso farlo, vado a casa. Spero di essere guarito, ma non lo so, quindi cercherò di prendere tutte le precauzioni possibili per non rischiare di contagiare mia moglie”.
Tralasciando tante cose capitate a Flavio, ognuna che l’ha deluso sulla gestione dei malati, concludiamo il racconto della sua lunghissima degenza con un preciso atto d’accusa. “Penso che la sanità si sia dimostrata completamente impreparata nel gestire questa emergenza. Le case di riposo, non tutte, ma quella dove sono stato ospite io, non sono attrezzate per la cura dei pazienti covid. Non mi hanno fatto fare un minimo di fisioterapia, uscire dalla stanza è pressoché impossibile, piatti e posate non sono monouso. L’impressione è quella di sentirsi prigioniero, qualcosa di terribile e che non voglio che nessuno viva più. Ho fatto tanti ragionamenti, sono arrivato addirittura a pensare che per gli ospizi noi siamo soprattutto un business. Ho iniziato a dirlo ai responsabili, loro hanno continuato a ripetermi che dalla Regione non vedono un euro… E invece c’è una quota giornaliera per ogni malato di coronavirus…”.
Facendo ogni augurio possibile a Flavio, sia per la ripresa del suo lavoro, che, soprattutto, per la totale guarigione da questa brutta malattia, anche perché la voglia di giocare accanto a lui è immensa, sono tante le domande che ci vengono. Su tutte, la solita: perché i pazienti covid sono stati messi nelle case di riposo?

Matteo Bonfanti