Provo quasi un senso di invidia per i tifosi dell’Atalanta. Non solo per come gioca ma perché, riflettendo, mi rendo conto che la Dea sia più che una squadra di calcio. Penso alla cavalcata pazzesca dell’ultima Champions, quella partita in terra iberica. Una partita surreale, in cui potevi sentire il botto dei contrasti, le urla dei mister e dei giocatori in campo. Una cavalcata che per tutti noi sportivi aveva solo il gusto dell’impresa calcistica ma che per Bergamo e i suoi tifosi era qualcosa di più. Asserragliati nelle loro case, sopraffatti dai lutti, minacciati dal covid, i bergamaschi si stringevano intorno alla squadra della loro città. Come se la Dea non fosse una squadra ma un segno di appartenenza. Sicuramente sarà stata la territorialità (come succede per le squadre basche che schierano solo giocatori indigeni) dei giocatori a suscitare questo attaccamento. Invece scorro i nomi della rosa e di italiani ne trovo due o tre. E allora quale legame salda così forte l’affetto di un popolo, che causa pandemia è su tutti i TG, con questa squadra che a fine partita sfoggia la maglia con la scritta “Berghem, mola mia”? Un motto diventato virale, che leggo sulle finestre delle case e che porta il fenomeno sulle copertine dei magazine internazionali. La risposta è quasi banale e commovente nella sua semplicità. Mentre Ronaldo posta foto dal rifugio bunker della sua villa a Madeira, i giocatori della Dea sono tutti a Bergamo. Chi chiuso in casa con la famiglia e chi nel centro sportivo della squadra. E non c’è stato bisogno di parlare perché nella Bergamo, che più di ogni altra città recita il “fa andà i man” come il vangelo, non ti giudicano per quanto sei bravo, per quanto sai ottenere o guadagnare, ma per l’impegno che ci metti. A Bergamo si suda e si lavora sodo. Questo è il loro DNA, correre e dare l’anima in campo è quello che conta. Li non puoi tirare a campare, ma devi uscire dal campo (o dal lavoro) con la canotta sudata. Ho una carissima amica che segue tutte le partite, una ultrà nel senso dell’attaccamento alla squadra e alla città. Ultrà senza quella accezione negativa che siamo abituati ad abbinare. Quando a Bergamo si costruì l’ospedale alla Fiera in piena pandemia, due sono state le categorie che si presentarono volontarie: gli alpini (te pareva) e gli ultrà. In pochi minuti i tifosi della Dea si presentarono in numero triplo rispetto alla forza lavoro richiesta. Muratori, carpentieri, elettricisti, tutti quelli che sono abituati a sudare la maglia e la fronte. Altri devolsero il rimborso della mancata trasferta alle strutture sanitarie. Per loro non esiste distinzione, se ti dai da fare trovi tutto l’affetto e la solidarietà. Ed è incredibile vedere come questa condizione sia trasmessa anche ai frontalieri e mercenari del pallone che giungono da ogni angolo del mondo ma che si immergono in questa realtà e ne assumono la stessa filosofia di vita. Talmente vera e sanguigna che ogni volta che intervistano il Papu me lo aspetto che inizi con un bel “Eh pota…”. Complimenti alla Dea e a tutti quelli che sanno vivere lo sport come festa e senso di appartenenza. Forza Atalanta, “mola mia”.
Giustino Comi