Non dico quando era nella pancia, ma proprio il giorno in cui è nato, il diciotto settembre del duemila e sei, Vinicio, il mio primo. Da lì, appena l’ho guardato, in una camera dell’ospedale di Bergamo, ho sentito due cose forti e soffici nel cuore, che poi non sono andate mai più via, una facile facile, direi ovvia, l’addio per sempre alla mia amata e odiata solitudine, l’altra assai complessa, il sentirmi in pari, dico felice, pronto a scriverne, sorridente e zeppo di speranza, solo se lui e gli altri come lui so per certo che stanno bene bene, al caldo, che hanno da mangiare, chi li culla e chi li mette a letto per farli sognare. Tutti i genitori convivono con questi due stati d’animo, non è che sia qui a scoprire chissà che viaggio, eppure credo che in questo momento sia necessario raccontarlo ogni giorno, ripeterlo, parlarne all’infinito, sperando che le nostre frasi arrivino presto nelle stanze dei palazzi dei potenti e che gli diano da pensare. Non importa se la battaglia è lontano lontano, ai figli e ai genitori serve la pace e bisogna far cessare subito la guerra, che è contro natura perché vuol dire centinaia di migliaia di Vinicio, ora diciassettenne, o di Vinicini, come lo chiamavo a sei anni, o di Viz, a dieci, sotto le bombe, nel terrore, senza un posto sicuro dove andare. Chi fa la guerra, chi lascia che ci sia, chi non se ne cura, non ha sentimenti umani. Un padre e una madre non possono non alzare la voce se nel mondo c’è anche solo un bambino in pericolo, semplicemente perché è uguale al loro, perché è anche il loro, la stessa identica e meravigliosa avventura.
Matteo Bonfanti
Nella foto io e i miei figli, Vinicio e Zeno, nel 2019