Stamane nel recarmi in auto al lavoro lo sguardo mi è scivolato su una ragazza che avrà avuto circa quindici anni; camminava frettolosamente in una via pressoché deserta e aveva il volto coperto da una mascherina nonostante non vi fosse nessuno per strada. Può sembrare banale, ma per un attimo mi sono rivista ai tempi della mia adolescenza e mi sono istintivamente trovata a fare un paragone. La ragazza non aveva l’obbligo in quel contesto di coprirsi il volto e, sebbene possa essersi trattato di un gesto – ahimè – già divenuto quasi spontaneo, ho avuto l’impressione che la mascherina rappresentasse un po’ la “copertina di Linus“, che fungesse un poco da “riparo emotivo”: un po’ come  la felpetta legata  ai fianchi che da ragazzina usavo per tentare di nascondere un fondoschiena che mi pareva troppo grande,  sebbene troppo grande non lo fosse mai stato.
Nonostante la maschera, del resto, non ho potuto evitare di notare le parvenze di un naso decisamente aquilino e così, ripensando alle mie insicurezze di gioventù, ho istintivamente provato tenerezza per quella giovanissima donna.
Sforzandomi di ampliare un po’ i termini della questione, sento il bisogno di condividere una veloce riflessione: quanto siamo vittime di noi stessi? Quanto permettiamo al nostro corpo di condizionare
 la serenità della nostra vita?
Da giovane ho avuto problemi di anoressia: gestita con coraggio e superata in un tempo discretamente ridotto. Però, sebbene non abbia mai raggiunto livelli definibili pericolosi per la vita stessa, ho provato sulla mia pelle cosa significasse non riuscire ad apprezzare realmente la vita, non cogliere le sfumature delle meraviglie intorno a noi, non godersi quanto di bello l’esistenza ci offre in gioventù. Quando ho superato quel momento di crisi ho realizzato tristemente di aver buttato al vento quasi un anno della mia vita.  A distanza di oltre venticinque anni non dimentico il senso di impotenza che si prova a non avere il controllo del proprio corpo, la paura, il timore di non poter più esser realmente felici. Il giorno che ho deciso di reagire è stato quello che ha dato la svolta alla mia vita: nulla da quel giorno mi ha mai spaventato più realmente, nemmeno le  gravi malattie – superate – avute in età adulta . Ho “vinto” me stessa e la mia insicurezza. Sono rinata, cresciuta e diventata davvero forte. In questo senso il mio vuole essere un messaggio di speranza per chi questo incubo lo sta vivendo…
Anoressia e bulimia non sono scomparse, la modernità non le ha sconfitte,  anzi, forse le ha acuite obbligando le persone a sentirsi inadeguate di fronte ad un modello di perfezione che fatica ad essere veramente distrutto… e di certo il Covid  non ha ucciso queste malattie insidiose, ma noi tutti possiamo fare la nostra parte innanzitutto lavorando su noi stessi.  Attenzione che non dobbiamo commettere l’errore di esaltare modelli esageratamente imperfetti: perché alla lunga tutti si accorgono che si tratta solo di una dolce finzione creata ad arte per nascondere altro.
Dobbiamo,  invero, imparare ad accettare che la perfezione non solo non esiste, ma che nemmeno possa rappresentare l’obiettivo finale, sebbene ci si debba sempre impegnare per migliorare pure il nostro aspetto laddove possibile.
Dobbiamo capire, però, che l’obiettivo è raggiungere un equilibrio, il “giusto mezzo” e, soprattutto,  comprendere  che ognuno di noi ha in sé la propria bellezza che prima o poi noteremo, ma che di certo vedremo prima ed impareremo a valorizzare solo quando – da soli o con l’aiuto di qualcuno – troveremo il coraggio di amarci e rispettarci per davvero.
Siamo abituati a pensare al peggio, ma tutto può cambiare meravigliosamente anche in meglio se solo lo vogliamo: parola di chi ce l’ha fatta. Buon tutto a voi …

Vanessa “Vane” Bonaiti