Certo poi, a bocce ferme, sottovoce e per inciso, oggi, ad ogni ricorrenza, ce lo diciamo tutti: il covid, soprattutto quello vissuto qui da noi, tra Bergamo ed Alzano, ci ha cambiato la vita. A me infinitamente, ero uno che scriveva sette righe al giorno di pallone provinciale, la Colognese in testa alla classifica, la Fiorente che non molla mai e la Pagazzanese che sogna il salto in Promozione, insomma per quel piccolo e fantastico giro, quattromila meravigliose anime, e ad un certo punto ero diventato, va detto all’improvviso e senza aspettarmelo, quello che veniva letto dall’intera Bergamo, centomila e passa persone rinchiuse tristemente in un angolo di casa. Perché poi? Intanto per il fatto che avevano abolito di soppiatto il tema a me caro, quello che amo, il pallone, e qualcosa comunque avevo bisogno di scrivere per sopravviverne, poi per via che la vicenda non era chiara, innanzitutto che i nostri nonni morivano come mosche senza manco una carezza all’ospedale, dove nella narrazione bisogna essere salvati. Io, così, dico abbastanza strambo, dicevo i miei dubbi e ognuno se li annottava, mi ringraziava prendendoli come fosse una sorta di resistenza al sistema sfigato che negli anni si era formato. Pure i miei figli, barricati a menarsi in casa, quindi il vestaglietta, il mio personaggio, che al terzo libro è ormai una saga, ossia l’uomo che esce alla cazzo per comperare le sigarette e si trova l’intero esercito sotto il suo appartamento, nell’immensa paura, non di una multa perché sprovvisto di qualsiasi documento, ma a causa del travestimento, un bottone su due, nel terrore di restare ignudo di notte di fronte a una schiera di guardie di ogni genere e specie. Questo è stato, uno shock continuo, le ambulanze d’intorno, fingendo di essere sani, come una cosa normale, non la casualità rarissima di tornare lungo la Briantea dopo aver trovato una mini coda per una sirena che corre all’impazzata a salvare qualcuno dall’infarto, piuttosto il costante e arrogante suono metallico della voce della protezione civile mentre lavoravamo a un giornale che non aveva più ragione d’esistere, perché noi qui, da sempre, parliamo di sport e il calcio non si poteva più fare, era abolito per decreto. Come ci fosse il diavolo e siamo stati a un passo dal fallire. E abbiamo dovuto inventarcela, col cuore a pezzi. E c’è, oppure credo ci sia stata, una colpa riconoscibile, un corto circuito totale nella catena di comando, ma non ho le competenze, non sono un medico, manco un ortopedico nonostante abbia un ginocchio malandato da vent’anni. Resta che credo che a Bergamo abbiamo vissuto un momento unico, drammatico, spesso comico grazie alle conferenze stampa di Fontana e di Gallera, sempre tragico, ed è talmente presto che sento abbiano ragione entrambe le fazioni che si sono formate, i soliti ultrà, i no vax e i pro vax. A Bergamo ci vorrà del tempo, come in Cile e in Argentina dopo la desaparicion. Chiedono giustizia i parenti di ottomila morti. Impegniamoci a dargli quantomeno una piccola risposta.
Matteo Bonfanti