Sembra ieri.
Eppure in molti, lì fuori, non hanno avuto la fortuna di vederlo sfrecciare in campo, ma nemmeno la sventura di doverlo piangere.
Sembra davvero ieri.
Era una mattina invernale come tante, di quelle di metà settimana e di cui non ti saresti ricordato per nulla al mondo.
Sembra ieri, ma era il 1997.
Un’era che si affacciava ad internet, ma che era totalmente priva della tecnologia come la intendiamo oggi.
Non vi erano ovviamente le notizie in tempo reale direttamente tra le mani, e il passaparola avveniva ancora per strada, o tramite la radio sempre accesa sul luogo di lavoro.
Come ogni mattina mi collegai al world wide web, il modem gracchió per qualche minuto, e si connesse al mondo.
Ma sembrò una mattina come tutte le altre, l’obsoleto e lento internet del mio IBM non mi consegnò nessuna notizia di rilievo e prima di mettermi a disegnare a china sul mio tecnigrafo la sezione A-A della fonderia Pilenga, accesi la radio.
Ricordo solo che mollai la penna a china, la voce della radio che in modo asettico e distaccato diede la notizia della morte di Chicco e Alessandra.
Erano le 10 del mattino quando lo scoprii.
Uscii dall’ufficio, incredulo e probabilmente sotto shock, e corsi in auto a Zingonia.
All’epoca si poteva entrare in auto, fin sotto la tribuna dove si assisteva agli allenamenti, sempre a porte aperte.
Poche persone erano presenti, per lo più i soliti pensionati, ma io nemmeno scesi dall’auto.
Al di là della rete metallica, sul vuoto prato verde, vi erano fiori buttati a terra.
Sento lo stesso groppo in gola di allora, una sensazione assurda amplificata dai miei vent’anni.
Chicco era un ragazzo come me, che si affacciava alla vita proprio come me.
Era quel giocatore che avrebbe voluto Gasperini a gennaio, quell’arma in più per raddrizzare le gare.
Lui chiamato sempre a spaccare le partite in corso, finì per spaccarci il cuore.
Per poi riconsegnarcelo, nel ricordo, grande così.
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